Centottantadue omicidi, commessi e commissionati, associazione mafiosa e associazione a delinquere, rapina a mano armata. È di questo che negli anni è stato accusato Giuseppe Misso, ’o Nasone, ma la scrittrice a cui è stata affidata un’intervista, che di camorra sa poco, a questo non è interessata. A lei interessano i colombi che alleva, il suo incontro con gli ufo, la malinconia con cui racconta di amici morti e donne amate. Teresa Ciabatti, autrice di sette romanzi, finalista al premio Strega con “La più amata”, semifinalista con “Sembrava bellezza”, torna in libreria con “Donnaregina” (Mondadori)
Dobbiamo considerare la scrittrice protagonista il suo alter ego o si tratta di lei, Ciabatti? E Peppe Misso esiste?
«Misso è ispirato a quello che fu un superboss. Quindi, sì: esiste. Vive nel programma di protezione testimoni ma a lui non piace il termine pentito: è un chiarificatore. Lei è un mio alter ego. Mi somiglia, ha in comune con me dati biografici. Ma non sono io».
“La più amata”, “Sembrava bellezza”, “Donnaregina”. Questo è il terzo romanzo con protagonista lo stesso alter ego.
«È invecchiata la mia scrittrice, tanto da sembrare un’altra persona: lo sguardo, il modo, il tono, è cambiata in modo profondo. Prima era bugiarda, mitomane, feroce, manipolatoria. Ora una donna di mezz’età quieta, che si sente vecchia. Interviene e parla meno, prende meno il sopravvento».
Vecchia a cinquant’anni?
«È uno dei punti di contatto tra me e lei. Pochi anni fa, in un anno, sono passata dai venti ai cinquant’anni senza vie di mezzo. Ecco, lei ci sta arrivando adesso e la differenza tra noi è qui: ciò che racconta in Donnaregina io l’ho superato».
Trauma?
«Sollievo. Non ero tagliata per la giovinezza».
La scrittrice dovrebbe solo intervistare Misso, ma parrebbe ossessionarsi alla sua storia. Le ragioni?
«Vanità, incoscienza. È l’incontro di mondi diversi e lontani. Lui è un ex super boss. Lei una borghese che nella vita di pericoli o grandi dolori non ne ha mai incontrati. Lei gli si avvicina quasi con superficialità. Di camorra non sa nulla. Si mette a tu per tu, fa domande impertinenti. Ma lui è paziente, comprensivo: l’asseconda. Perché non si fermi all’intervista, non lo sa lei stessa. C’entra la genitorialità, lo intuisce dopo».
C’entra la genitorialità - la figlia di lei, Camilla, il figlio di lui, Giulio -, e la ricerca della scrittrice di una compresenza in Peppe Misso: di luce e buio. Misso è considerato un mostro, quindi una persona che ha solo buio dentro. Lei non ci crede.
«Raccontare il male come qualcosa di lontano da noi è pericoloso. Circoscrivere i criminali al novero dei mostri una semplificazione, operazione che ci fa sentire salvi: noi a quel mondo non apparteniamo. La verità: i mostri non esistono. Esistono gli umani che commettono atti mostruosi».
Quindi?
«Dovremmo sostare di più in questa terra di mezzo, dove i confini sono labili. E la letteratura è un mezzo per farlo».
Misso si racconta in terza persona, ci tiene a dirsi il buono e caritatevole che ha aiutato anche chi era in difficoltà. Crede a questa versione o mente con coscienza?
«È una domanda a cui non rispondo nel libro e non risponderò oggi. La ragione del romanzo non è questa: non importa la mia opinione, compito del lettore è farsi la propria, io fornisco gli strumenti. Questo libro non è un’indagine o un’aula di tribunale».
Raccontando, la protagonista ricorda che a 16 anni usava test di gravidanza.
«La nostra allucinata urgenza di futuro. Noi speravamo di rimanere incinte, diventare donne. Desideravamo andare più veloci. I ragazzi oggi non hanno questa fame: il futuro che pretendevamo a loro fa paura».
Attraverso Camilla, figlia della scrittrice, racconta le nuove generazioni. E una giovinezza del tutto diversa.
«I nostri figli stanno male, e noi abbiamo la responsabilità di guardare negli occhi la loro sofferenza. Parlo di maternità generazionale, non personale. Mi sento vicinissima a loro. Sia per i temi importanti, per cui lottare, sia per quelli banali».
Temi banali?
«Ascolto la musica di mia figlia, Marracash, Tony Effe, Guè. Per Geolier impazzisco».
Le sono sempre stati a cuore questi bisogni?
«No. Non sono sentimenti nati con la maternità. Aver avuto una figlia non è stata una spinta in questa direzione. Tra l’altro, sono diventata madre dieci anni dopo esserlo diventata».
Quindi questa tenerezza?
«È arrivata con la vecchiaia. E mi ha sorpresa. Non credevo sarei diventata così. La ragazza che sono stata non presupponeva quel che sono oggi. Ero sempre in competizione, rabbiosa, invidiosa. Ero certa sarei stata diversa, in vecchiaia, e invece. A vent’anni, una sera mia madre rincasò zoppicando. Una ragazza in motorino l’aveva investita, ma stava bene, aggiunse - falso: dovetti portarla in ospedale. Ero una furia: volevo annientare la ragazza che le aveva fatto del male, ma lei non le aveva chiesto neanche nome e cognome. Perché? Risposta: era solo una ragazza, mi ha ricordato te. Ho capito dopo trent’anni questo sentimento».
In “Donnaregina” lei scrive di M., personaggio in cui si riconosce Michela Murgia, di cui è stata amica. Merito suo, questo cambiamento?
«Merito degli incontri della mia vita. Ma penso d’essere diventata la donna che sono a casaccio, senza intenzione».
Gli incontri della sua vita?
«Tanti. Mio marito, Chiara Valerio, Roberto Saviano, Michela Murgia. Persone centrate, con un impeto diverso dal mio. È grazie a loro, tra gli altri, che ho cambiato il mio rapporto col potere, con la morte».
Rapporto col potere?
«I primi rapporti di potere li sperimentiamo in famiglia. Per anni col potere ho avuto un rapporto simile a quello di mio padre, provavo la stessa fascinazione. Negli anni ho ribaltato tutto, aperte le finestre, aria nuova. Il potere non mi interessa più».
Con la morte?
«La scrittrice di “Donnaregina” fa una scoperta che ho fatto tempo fa: non sono più i genitori a morire, siamo noi. In questo senso, la morte di M. per lei è fondamentale. Iniziamo a morire noi, adesso. Noi».
La morte di Michela Murgia?
«Michela non aveva paura della morte, mai avuta. Se ha cambiato il mio modo di guardarla, la morte, è anche per questo motivo».
E lei teme la morte?
«No».
Cosa, allora?
«La morte dei figli. Mi terrorizza».