Visto il film che ho fatto, la chiacchierata virtuale era d’obbligo», scherza David Cronenberg, 82 anni, regista canadese di culto di “Videodrome”, “Inseparabili”, “Crash”, “Cosmopolis”.
Avrebbe voluto fare l’intervista di persona, ma ha dovuto annullare il suo viaggio in Italia all’ultimo e la tecnologia ci ha aiutato. Invece nel suo nuovo film “The Shrouds”, in anteprima al Baff 2025 e ora al cinema, la tecnologia è un’inquietante illusione: permette al protagonista, il magnate tecnologico Karsh interpretato da Vincent Cassel, di monitorare cosa accada dentro la tomba della sua amata moglie.
Neanche da morti riusciremo a scampare all’ipercontrollo sulle nostre vite?
«Nel sistema capitalistico in cui viviamo siamo sempre controllati, i governi mirano ad avere il controllo su di noi, come la tecnologia. Siamo tutti co-cospiratori in questo, io per primo che amo la mia Tesla, pur non piacendomi per nulla Elon Musk e la sua strana mentalità. O che senza cellulare mi sento perso. Siamo perennemente controllati e ci sta bene. Fa paura? Certo».
Ha detto che viviamo «tempi interessanti». Cosa intendeva?
«Dovremmo parlarne per dieci anni, parlare a fondo di economia, politica e guerra. Dovremmo affrontare temi giganteschi, molto diversi tra loro. Diciamo che oggi siamo molto arrabbiati in Canada per quello che sta accadendo negli Stati Uniti».
È preoccupato per le sorti del mondo?
«Tanto, è un momento pericolosissimo e instabile perfino in Canada. Ma torniamo al cinema».
Il cinema è un atto politico?
«Rappresenta il lavoro e le idee di persone di culture, sensibilità, lingue e background diversi. Anche un film su Picasso o uno che non parla di propaganda politica è politico. Anche il mio cinema lo è, indirettamente».
Per Fellini il cinema era un modo per entrare in competizione con Dio. Per lei?
«Dio può rilassarsi, tanto non ci credo, sono ateo. Per me il cinema è una forma d’arte delle tante possibili. Non è “la mia vita”, per fortuna la mia vita è tanto altro. Potrei anche diventare un pittore come George Bush un domani».
Parliamo del suo “The Shrouds”, quanto è autobiografico?
«Sono stato sposato per oltre quarant’anni, quando nel 2017 è morta mia moglie non credevo avrei più fatto film, perché lei sì, era tutta la mia vita. Poi ho pensato che potessi ancora parlare di amore, lutto e morte e mettere la mia creatività al servizio di una storia che più scrivevo più diventava autonoma da me e dal mio vissuto. Tant’è che il protagonista interpretato da Cassel non è il mio clone».
È un magnate tecnologico, ha pensato a Musk?
«Il mio Karsh non ha lo stesso successo di Musk, né le sue ambizioni politiche. E poi ho scritto questa storia in tempi non sospetti. Lessi un articolo su persone che avevano perso i loro cari e attraverso l’intelligenza artificiale potevano conversare con i loro avatar, con le stesse voci dei defunti derivanti da speciali campionature».
Da ateo lei non crede nell’al di là.
«Non ci credo, considero una frode tutto ciò che le religioni dicono sulla vita dopo la morte. Già in “Crimes of the future” lo esprimevo, l’unica realtà è il corpo, quando un corpo muore la realtà finisce».
Eppure attraverso l’intelligenza artificiale si possono rievocare le voci dei morti.
«È vero, in tutti quei Paesi in cui esiste Internet c’è un aldilà artificiale possibile, una specie di paradiso in cui gli avatar dei defunti possono dialogare, ma è una cosa falsa e fittizia, come l’idea del paradiso delle religioni».
La tecnologia, però, le piace di più della religione?
«Sono un nerd, del resto. La tecnologia non trascende i nostri corpi, è i nostri corpi. Negli anni Cinquanta c’era la fantasia di una tecnologia aliena, ma è profondamente umana: è un riflesso di quelli che siamo, l’estensione dei nostri corpi, cervelli, voci. Anche l’intelligenza artificiale lo è, permette di fare cose meravigliose e terribili nel modo in cui gli umani sanno fare cose meravigliose e terribili».
Non demonizza l’intelligenza artificiale?
«No, è uno strumento come gli altri. Pensi a “The Brutalist” e al cambio di voce per l’accento ungherese di Adrian Brody. Non c’è da averne paura, c’è da porsi domande etiche al riguardo. Specie rispetto a quanti perderanno il lavoro, un problema sociopolitico enorme, ma non si può fermare».
Ultimamente i social sono stati invasi da immagini di Miyazaki, che ha definito l’intelligenza artificiale «un insulto» perché ruba l’arte dei maestri del cinema come voi. Che ne pensa?
«Si ruba solo dai migliori, da sempre. Solo che oggi il furto si diffonde più rapidamente. L’intelligenza artificiale può essere usata per curare il cancro, o per creare veleni letali: è bene e male insieme».
Si sente un cineasta visionario?
«Mi sento un semplice osservatore della realtà. Provo a capire la natura umana senza l’ambizione di profetizzare nulla. L’arte non è una profezia».
Dovesse indicare il segreto della sua carriera?
«Faccio sempre un film per volta, senza piani strategici. Ogni film per me è sempre il primo, il mio approccio è la sorpresa di fronte alla tela bianca».
Essere un precursore l’ha fatta sentire solo?
«No. Da fuori può sembrare sia un esploratore solitario, ma il cinema è arte di squadra, ho sempre avuto accanto i miei attori e la troupe».
Intravede eredi possibili tra i giovani registi?
«Coralie Fargeat di “The Substance” e Julie Ducournau di “Titane” le considero le mie figlie spirituali».
Alla fine “The Shrouds” le è servito a elaborare il lutto?
«No, il dolore resta per sempre. Nessuna strategia, nessuna terapia, neanche questo film, potrà mai liberarci dalla sofferenza per la perdita di chi amiamo».