Un salto di specie. E la denuncia dell’ipocrisia, della stoltezza e della pigrizia evolutiva dell’uomo. “Cornacchie”, il romanzo di Giacomo Ceccarelli, nasce dall’antico mito greco

Prometeo furioso nel cielo

Chi domina il fuoco domina il mondo, lo insegna l’antico mito di Prometeo incatenato, punito per aver osato sfidare gli dèi. È in questa immagine che si radica e si sviluppa liberamente l’idea di “Cornacchie”, romanzo d’esordio di Giacomo Ceccarelli (Feltrinelli). Un volume di 190 pagine secche, senza prefazione né note e senza ringraziamenti, come se fosse uno squarcio tra i pensieri dell’autore, il racconto di un sogno, un brano di un suo quaderno privato, eppure metodico.

 

Il suo linguaggio preciso – tagliente e persino scorretto, poco accomodante e senza filtri – non vuole accogliere il lettore ma trascinarlo fino alla fine, d’un fiato. “Cornacchie” è una collezione di 99 paragrafi che al primo impatto sembrano versi in strofe, un cantico. Frasi brevi, immagini potenti.

 

Solo un esergo, tratto da un’opera di Giorgio Caproni, offre una preventiva chiave di lettura, un modo di interpretare il messaggio del libro, o almeno il motore che sembra muoverlo. L’ultima parte recita: «Come potrebbe tornare a essere bella, scomparso l’uomo, la terra». In questi “Versicoli quasi ecologici” di Caproni si intravede già un primo livello di senso di “Cornacchie”, quello di un libro antispecista, non necessariamente consapevole di esserlo. Un libro che, sottolineando l’ipocrisia, la pigrizia evolutiva e la stoltezza umana, critica con amarezza il ruolo dominante dell’umanità stessa su tutti gli altri esseri viventi e sul Pianeta.

 

Attraverso la fantasia, oscura e terrificante, delle cornacchie-Prometeo, che imparano ad accendere e controllare il fuoco, Ceccarelli espone le paure infime dell’uomo, quelle che si trasformano in violenza o che condannano alla solitudine. Al tempo stesso usa l’espediente degli uccelli, quelli liberi in natura e quelli in gabbia, per creare un parallelismo con gli esseri umani, intrappolati nella realtà delle immagini e delle aspettative, vittime di telecamere puntate addosso ogni giorno come «Erinni furiose e mai sazie», che offrono una riflessione sull’atto del guardare e dell’essere guardati. Un evento tanto surreale quanto inquietante, come questo immaginario salto evolutivo delle cornacchie, genera una reazione a catena che lega in modo invisibile e profondo le storie di Luca, Enzo, Alberto, Pepo, Jasmine, Olga e di un piccolo pappagallo rosso, Girolamo, che insegue la libertà.

 

Ceccarelli immagina cosa accadrebbe se qualcos’altro dovesse divenire all’improvviso qualcun altro, maturando cioè una propria coscienza. E in effetti le cornacchie che popolano l’incubo dell’autore hanno nomi, pensieri e parole. Hanno una causa da perseguire, una rivoluzione e una vendetta da mettere in atto. È qui che si fa spazio perciò anche il secondo livello di lettura, quello allegorico, in cui le cornacchie possono rappresentare qualsiasi gruppo sociale emarginato, che lotta per l’autodeterminazione all’interno di una società che ne rifiuta le rivendicazioni.

 

Le cornacchie sono il gorgoglio di una moltitudine che nasce e cresce in quel rifiuto, che vorrebbe evolvere in autonomia ma viene costantemente trascinata a riva dai gruppi dominanti. Basta poco però a far scattare la loro furia e il loro orgoglio, fino al punto da non poter trovare più riparo.

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