Divisiva in patria, acclamata nel mondo, la celebre mezzosoprano approda a Cremona con “Orfeo ed Euridice”. “La politica culturale italiana non ha una visione”

Cecilia Bartoli: il canto (lirico) dell'anima

«Il cantar che nell’anima si sente, diceva Rossini». Con questa citazione si conclude l’incontro con Cecilia Bartoli. E capita, talvolta, che si debba partire proprio dalle battute finali, perché si crea una circolarità nelle cose dette, nel significato che a questa circolarità si sottende e manifesta anche una dichiarazione di poetica. Che l’animo di Cecilia Bartoli senta, fortemente, si percepisce subito, dal timbro della voce, di bellezza inafferrabile, non solo quando canta, anche nell’eloquio, dalla passione con cui descrive il proprio lavoro, la musica che ama profondamente, dall’animosità con cui racconta ogni cosa. Una carriera costellata di successi, senza mai perdersi, condotta con rigore e con grande presenza a sé stessa.

 

Mezzosoprano tra i più celebri e celebrati, divisiva in patria ma acclamata a gran voce all’unanimità da critica e pubblico sulla scena internazionale, Cecilia Bartoli torna l’11 giugno in Italia, a Cremona, al Teatro Ponchielli per il Monteverdi Festival. Sarà Orfeo, in “Orfeo ed Euridice”, nella versione che Gluck scrisse per il Teatro Farnese di Parma nel 1769. Un Orfeo, quello della cantante romana di nascita, che resta impresso nella memoria dopo averlo ascoltato nelle maggiori città europee, non solo per le “spericolate” agilità virtuosistiche della sua straordinaria tecnica. È l’eleganza del fraseggio, il minuzioso lavoro che scolpisce la parola, la profondità di lettura e di aderenza al testo che denota l’unicità della sua interpretazione, il respiro, il senso del teatro che la mezzosoprano restituisce al pubblico quando la voce si trascolora nella dolente e ben nota aria «Che farò senza Euridice».

 

«Mi appassiona sempre “Orfeo ed Euridice”. Il mio ruolo en travesti è meraviglioso e richiede una grande intensità del sentire, perché esprime l’amore che supera ogni limite, quell’amore capace di scendere negli inferi pur di riportare in vita la sua amata», comincia Bartoli: «Tutto questo Orfeo lo affronta con la sua voce che riesce a placare le anime, e con uno strumento, la lira: ancora una volta la musica può avere un grande potere». Insieme a Bartoli, saranno chiamati in scena i Musiciens du Price diretti da Gianluca Capuano.

 

Collaborazioni con i più grandi direttori d’orchestra, da Harnoncourt a Barenboim, da Karajan ad Abbado a Muti, decine di milioni di dischi venduti, sfidando tutte le crisi del mondo discografico e soprattutto con playlist di raffinata ricerca e rara esecuzione. In sintesi, una musicista di successo; ma che cosa è il successo per la signora Bartoli? «È un punto d’arrivo da cui ripartire sempre e soprattutto non bisogna mai dare nulla per scontato nella vita, tantomeno il successo. Il successo, semmai, mi ha sempre dato la spinta in avanti; io sono una curiosa, amo profondamente la musica e ho cercato di dare vita a nuovi progetti, di legarlo a nuovi programmi, alla voglia di studiare nuovi repertori. Ma non solo in senso teatrale, ho sempre voluto tradurlo anche in altri linguaggi o ambiti artistici».

 

Con la precisione di un’archeologa, Cecilia Bartoli ha perscrutato tanta letteratura musicale portando alla luce capolavori, rimasti talvolta nei coni d’ombra dell’oblio. I motivi possono essere molteplici, ma si tratta sempre di capolavori o non è un caso che siano rimasti nei cassetti della dimenticanza? «Pensiamo ad esempio a un compositore come Händel, che per me è uno dei più grandi geni del ‘700. La sua musica strumentale ha trovato piena luce, ma molte delle sue opere sono finite nel dimenticatoio; eppure, si tratta di autentici capolavori. Quando ho ascoltato per la prima volta il suo “Ariodante”, che ho messo in scena poco tempo fa a Salisburgo, non potevo credere che un’opera di tale bellezza fosse stata abbandonata. Sicuramente il più rappresentato e conosciuto è il Giulio Cesare, che tuttavia dagli anni Cinquanta, cioè da quando è stato portato in scena con più frequenza, ha avuto un’esecuzione, chiamiamola così, un po’ bizzarra. Il “Giulio Cesare”, scritto da Händel per la voce dei castrati, oggi è affidata ai controtenori, e invece, nelle versioni di quegli anni, il ruolo era interpretato da un baritono. Ecco, penso che una parte di quel repertorio settecentesco sia stata vittima di una moda che terminava, che era poi la moda dei castrati che andava scomparendo per lasciare spazio alle prime grandi dive del melodramma ottocentesco come Giuditta Pasta o Maria Malibran. I vari Farinelli, Caffarelli, Senesino, ovvero i grandi castrati non esistevano più, oddio per fortuna», sottolinea sorridendo: «Anche per un soprano, un mezzosoprano o un controtenore affrontare una partitura scritta per quelle voci incredibili è sempre stata una grande sfida. In sintesi, un repertorio sparito per mancanza di strumento! Si consideri, inoltre, che con l’avvento di Verdi, Puccini, la programmazione di molti teatri si è appiattita su questo repertorio, che rispondeva e risponde tuttora a leggi di mercato di più facile sostenibilità. Perché rinunciare a un tutto esaurito con una “Traviata”, per dare spazio a un “Ariodante”?».

 

Non solo scelte raffinate e inusuali, ma anche esecuzioni filologicamente fedeli alla scrittura del compositore: «È chiaro che per quanto si possano usare strumenti storicamente informati, non potremo mai avere le sonorità dell’epoca di Händel. Ma io le porto l’esempio di un titolo più famoso, come la Norma di Bellini: quella che si sente non è certo la versione originale. Nel 2013 abbiamo deciso di incidere una “Norma” dopo aver fatto uno studio filologico, cercando di eseguirla così come è stata scritta e abbiamo riscontrato che nel corso delle tante esecuzioni, la Norma è stata soggetta a tagli, a cambi di tonalità, a vocalità e coloriture contrarie alle intenzioni di Bellini. Per me tornare alle partiture originali è un gesto di grande modernità: sì, il rigore filologico è modernità, andare alle fonti, riscoprire un pensiero, avere la forza, la passione, il desiderio di rileggere la partitura in maniera filologica, restare il più possibile fedeli alla musica del compositore: per me questa è la vera modernità».

 

Cecilia Bartoli non è “solo” cantante e studiosa, è anche manager culturale, responsabile delle programmazioni artistiche di due tra le maggiori istituzioni musicali internazionali: il Festival di Pentecoste di Salisburgo e l’Opera di Montecarlo, di cui ha appena annunciato la nuova Stagione. Perché ha scelto di occuparsi anche della direzione artistica, tra i tantissimi impegni? «Ho avuto la fortuna di lavorare con grandissimi maestri e anche registi e avendo ricevuto tanto, è giunto il momento di condividere quello che mi è stato donato, condividerlo con il mio pubblico, con nuovi artisti. Per me è sempre una gioia poter creare nuovi programmi. Per esempio, per la Stagione monegasca continueremo il nostro percorso wagneriano, con Il vascello Fantasma e La Valkiria. E sempre sulle orme della filologia, lo scorso anno abbiamo messo in scena “L’Oro del Reno” con gli strumenti d’epoca in buca e sul palcoscenico una regia straordinaria di Davide Livermoore che ha usato registri scenici tecnologicamente avanzati. Avere gli strumenti originali in buca, significa ottenere finalmente una sonorità il più possibile fedele all’originale, dove si possono ascoltare perfettamente i cantanti, dove i cantanti stessi si possano sentire a proprio agio, non più sommersi dalle masse sonore delle grandi orchestre, costretti a spingere fino all’inverosimile la voce».

 

Cecilia Bartoli è ormai da tempo via dall’Italia e forse il suo sguardo attento, la sua vista profonda e acuta può dare una fotografia oggettiva sulla situazione culturale del Paese che le ha dato i natali: «La politica culturale italiana non ha ancora una visione, non ha una progettualità e soprattutto non sostiene, non supporta la musica. Bisogna aprire i teatri non chiuderli. Occorre finanziare tutti i teatri, non solo le grandi fondazioni, anche quelli più periferici. I teatri di tradizione, ad esempio, vanno potenziati, perché sono palcoscenici di fondamentale importanza per la formazione di un cantante, da cui hanno spiccato il volo tantissimi artisti».

 

E a proposito dei giovani, che ne pensa Cecilia Bartoli delle nuove generazioni di cantanti? «Ci sono belle voci, ci sono state e ci saranno sempre, ci sono cantanti dalla tecnica straordinaria, ineccepibile, voci solide. Tuttavia, manca l’individualità, si tende sempre più all’omologazione, a seguire anche in questo caso le mode di uno stile interpretativo. L’interprete deve leggere quello che in realtà non esiste sul pentagramma: “Il cantar che nell’anima si sente”, come diceva Rossini».

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