Da oltre dieci anni la scrittrice statunitense di origine indiana, premio Pulitzer, ha scelto di scrivere in italiano, “per amore”. Ora arriva il nuovo libro, scritto in inglese. ”Ma non è un ritorno a casa. È un altro viaggio”

La lingua, la traduzione, la vita - colloquio con Jhumpa Lahiri

È appena uscito per Einaudi “Perché l’italiano? Storia di una metamorfosi” (nella traduzione di Tiziana Lo Porto, Fabio Pedone, Stella Sacchini e Domenico Starnone), un libro particolare di Jhumpa Lahiri, nato in parte in inglese e in parte in italiano.

Nata a Londra da genitori bengalesi, Jhumpa Lahiri cresce e studia negli Stati Uniti. Vive a New York e con la sua prima raccolta di racconti, “L’interprete dei malanni”, nel 2000 vince il Pulitzer e il PEN/Hemingway. Seguono altri libri scritti in inglese fino a quando, nel 2012, la scrittrice si trasferisce a Roma (alternando periodi americani) e comincia a scrivere in italiano (“In altre parole”, “Dove mi trovo”, “Racconti romani” e la raccolta di poesie “Il quaderno di Nerina”, tutti pubblicati da Guanda Editore).

È un libro sulla traduzione? Sulla lingua? Sulla letteratura?

«È un libro sulla vita».

Tutto ruota intorno a tua madre. Penso a quel bigliettino per la festa della mamma che da bambina non sapevi come scrivere – “Mother o Ma?” – all’audiolibro fatto in casa ai tempi dell’università, quando avevi bisogno della sua voce per tradurre dal bengalese che non sai leggere. Torna persino nel tuo lavoro su Ovidio, trasformata in pianta. Il rapporto con la lingua è il rapporto con tua madre. E l’italiano in fondo è stato un gesto di libertà, la lingua che lei non poteva capire, uno spazio solo tuo per uscire dal conflitto fra il bengalese delle origini e l’inglese, il mondo scelto dai tuoi genitori.

«È stato mio padre a scegliere, non mia madre. Lei era attaccatissima al suo Paese e alla sua lingua. È questa l’origine dei miei sensi di colpa verso l’inglese, che ho avuto fin dall’inizio. Ricordo la difficoltà di chiamarla per essere una figlia, se ti manca il termine giusto. Tu non dimentichi mai quando tuo figlio dice per la prima volta “Mamma”. È una parola che ti viene naturale, non è una parola che devi imparare. Io da bambina la chiamavo Ma, poi mi trovo davanti all’insegnante e agli altri ragazzi che dicono Mother o Mom. Da lì parte un conflitto enorme dentro di me. Non dico con la lingua madre, perché è un termine per me limitato, limitante, imperfetto, ingannevole, perché io non ho una vera lingua madre. Il concetto di lingua madre non mi regge. È un concetto totalizzante, perché una lingua è una cultura, è un punto di riferimento. Tu puoi avere due genitori che parlano due lingue diverse e avere due lingue madri. Il mio caso è diverso, io ho due lingue ma senza quel punto di riferimento che contiene, che crea casa. E che mi definisce. Io cerco tuttora una vera definizione, forse tutti la cerchiamo. Chi siamo? Perché siamo come siamo? Per me la ricerca inizia molto presto per via della lingua: avevo paura di tradire mia madre. Perché per chiamarla usi una parola straniera? Il tradimento non è solo romantico. Io me lo sono portato dietro: in tutti i miei racconti c’è sempre una specie di tradimento perché io mi sento quella bambina lì, sento la sua confusione e il suo senso di colpa costante».

Mi hai sempre detto che avresti ricominciato a scrivere in inglese solo dopo la morte di tua madre. È andata così?

«È così, proprio così. Infatti ho appena finito un romanzo in inglese. Sicuramente l’italiano ormai si è innestato, però non ha più il ruolo di prima. Ma non credo che sia un ritorno. Non credo che ci siano ritorni. È impossibile tornare perché l’inglese non è mai stato casa. L’inglese è stato il punto di partenza per la mia scrittura, questo sì, ma non una casa. Ne parlavo anche con Domenico Starnone poco tempo fa. “Allora è un ritorno a casa”, mi ha detto. No, no, ho risposto. Non è un ritorno, è un altro viaggio. In mezzo ci sono dodici anni di sperimentazione con l’italiano e il latino di Ovidio, non è affatto un passo indietro».

Io pensavo che questo nuovo romanzo tu lo stessi scrivendo in modo ibrido. Un po’ in una lingua e un po’ in un’altra. Invece no. Tutto in inglese, stavolta.

«L’ho cominciato in italiano, però a un certo punto ho cambiato e l’ho scritto in inglese. Ho iniziato il romanzo in italiano, puramente in italiano, perché era una storia difficile da raccontare per me. Difficile da concepire, da vivere, su cui riflettere sopra. Mi è sembrato un libro in qualche modo proibito, quindi per un anno e anche qualcosa di più, mi è venuto fuori solo in italiano. Ho scritto una prima stesura molto velocemente. In italiano vado più veloce, riesco perfino a correre».

Hai fatto un’intera stesura in italiano e poi hai cambiato lingua?

«Più che una stesura è stata una preparazione. Ho preparato il terreno per il libro in italiano. La terra è l’italiano, se vogliamo usare l’ennesima metafora. Poi ho messo i semi che sono le parole in inglese. È un innesto anche questo. E c’entra molto con mia madre, sì. È successo che il New Yorker mi ha chiesto un racconto. E io ho scritto il primo racconto puramente e direttamente in inglese dopo vent’anni. È un racconto che parla di mia madre, appunto. E questo è un altro tassello. Il romanzo non è su mia madre, ma lei compare perché compare in ogni mia opera».

Il tuo inglese di oggi è una lingua nuova?

«È una lingua nuova, sì. È frammisto all’italiano, ormai. Ad altri libri, altri canali di percezione. È un inglese filtrato dall’italiano e anche dal latino, dalla mia esperienza di traduzione di Ovidio. Sono immersa nel mare ovidiano da più di quattro anni, e anche nella poesia».

Nel libro parli della casa di Lalla Romano. Ricordo benissimo quel giorno a Milano, ci siamo andate insieme. Citi una frase dal “Diario intimo” in cui lei dice che la sua quasi cecità è un punto di vista. In fondo con l’italiano tu hai fatto una scelta di umiltà estrema, ti sei messa in una posizione minoritaria apposta. 

«Sì, a un certo punto appoggi tutte le armi che hai, fai un gesto. Non posso più combattere, pensi. Come Ettore. Posso essere. Ho cercato di essere e basta, di essere me stessa. Senza tutte le difese».

Da dove veniva questo bisogno?

«Forse dalla paura della falsità. Io ho sempre paura di essere in qualche modo falsa, e lo sono. È doloroso. Perché cambi lingua? Per spostare la falsità. Perché dalla falsità non c’è scampo. In italiano non ho il diritto all’autenticità. È questo che mi pesa. E mi fa pensare profondamente. Perché io non ho questo diritto? Ovunque vada, c’è questo problema dell’autenticità che mi segue. Forse è una cosa che cerco. Ovviamente avrei potuto rimanere in America, scrivere sempre in inglese. Sono figlia di immigrati, sono cresciuta negli Stati Uniti, l’inglese è la mia lingua principale. Invece mi sono messa in gioco e a volte mi sento ancora chiedere con un tono quasi ostile: Perché parli italiano? È una cosa che non sopporto dell’Italia. Più ci vivo, più diventa una base importante, soprattutto per i legami personali, le amicizie che sono cose profondissime nella vita, più mi ferisce quando mi chiedono perché. Quando la gente usa i possessivi. Perché parli la nostra lingua? O quando i giornali scrivono che amo la vostra lingua».

Ora la situazione è anche peggiorata, con Trump e Meloni. Nel libro ne parli attraverso Ovidio, Eco e Narciso. «Chi auspica che l’America torni a essere grande, o sostiene che gli italiani vengono prima degli altri, è anch’egli innamorato di un’ombra…Una cultura nella posizione di Narciso, una nazione che adotta il suo atteggiamento, come lui, non può che dissolversi». Nei “Racconti romani” l’hai raccontata benissimo l’Italia che sarebbe venuta.

«E anche l’America che stiamo vivendo. Perchè si specchiano».

Passiamo alla letteratura italiana, a Domenico Starnone. Ho questo ricordo bellissimo: eri in ospedale e io ti ho portato il suo romanzo “Lacci”, che era appena uscito. Abbiamo deciso di leggere il romanzo contemporaneamente e abbiamo passato la notte a scambiarci messaggi pieni di entusiasmo su quel libro, come due adolescenti. Poi tu l’hai tradotto, e hai tradotto anche “Confidenza” e “Scherzetto”. Che cos’hai in comune con Starnone? 

«Abbiamo in comune proprio un rapporto secondario con l’italiano. Anche lui ci arriva attraverso un’altra lingua: il dialetto napoletano. Abbiamo in comune un rapporto costante con altre parole. E siamo scrittori che stanno sempre a esplorare la stessa cosa: la famiglia, la formazione, quella cosa lì».

E di diverso, invece?

«La differenza è che lui è lo scrittore italiano per definizione, celebre, eccellente, il migliore, qualunque aggettivo vogliamo mettere, però non c’è dubbio sulla sua italianità. Quindi è un autore italiano autorevole. Io no. Lui è molto attaccato all’italiano, è la sua unica lingua, non gioca con altre lingue, a parte il napoletano. Io invece vado sempre al di là di quello che ho e voglio sempre esplorare quel mare proibito di Pavese. Io voglio sempre cambiare, arrivare su un’altra sponda».

Altri ricordi comuni. Le serate a casa di Patrizia Cavalli, i pranzi noi tre. La nostra amica Michela Murgia. Mi hai detto che farai lezione su di loro ai tuoi studenti e mi sono un po’ commossa a immaginarle trasformate in una tua lezione.

«Patrizia è stata la prima scrittrice importante conosciuta in Italia, ho un ricordo molto nitido del primo incontro, di quando abbiamo parlato di Elsa Morante, era curiosa. Non ha capito però i miei primi passi in italiano, non era entusiasta del mio primo libro, In altre parole. Era rimasta perplessa. Loro due, Cavalli e Murgia, hanno rappresentato due forme di libertà. La libertà di Patrizia era letteraria, fatta con le parole, con la sua leggerezza, con la sua ironia, con la sua intelligenza. Michela l’ho conosciuta molto dopo. Michela invece ha capito e apprezzato fino in fondo i “Racconti romani”. Attraverso la sua passione per il coreano, ha capito istintivamente la mia esigenza di spostarmi verso l’italiano e questa ricerca identitaria. Per via del suo rapporto col dialetto sardo, come Domenico con il dialetto napoletano, Michela ha capito l’aspetto ibrido dell’identità italiana e della lingua italiana. Ma la libertà di Michela non aveva solo a che fare con le parole, aveva a che fare con le persone».

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