La cultura come arma di diplomazia tra Paesi del Golfo e Stati Uniti. Alla Biennale in Arabia espongono artisti occidentali e islamici. In un viaggio anche spirituale

Gedda nel segno dell'arte

Tutte le strade portano a Gedda. Almeno, a guardare fino in fondo al successo dei Paesi del Golfo nel primo viaggio ufficiale all’estero della seconda presidenza Trump, gli ingredienti c’erano già tutti per capire che qui si muoveva qualcosa. L’accoglienza riservata al presidente degli Stati Uniti da parte dei tre Paesi di maggiore peso economico nel Golfo – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar  – con tutti gli aspetti più orientalisti (la danza dei capelli delle ragazze emiratine) a quelli più faraonici (il “dono” del Qatar a Trump di due aerei Boeing 747-8 Jumbo-Jet luxury) – segnano una tregua tra i tre Paesi della Lega Araba nel segno del business americano. Eppure, un luogo da cui osservare con attenzione i segnali anticipatori di questa strategia del Golfo è Gedda in Arabia Saudita. Città del Sud del Paese, di fondazione abbastanza antica (sesto secolo dopo Cristo), crocevia sul mare tra il Sud yemenita della Penisola e le tribù dell’Hijaz e del Jizan e le tribù del Nord, tra cui i Saud che governano a Riad, Gedda mette tutti d’accordo: i turchi che la conquistarono e vi fecero arrivare la ferrovia di primo Novecento; gli yemeniti che vi lavorano nei ristoranti e nei negozi della città vecchia adesso in (controverso) restauro; i sauditi che la governano e ne hanno fatto la perla sul Mar Rosso, attraendo investimenti stranieri, capitali per miliardi di dollari sul settore del real estate, sulle connessioni aeroportuali, e milioni di pellegrini che sul treno veloce per Mecca e Medina passano anche da qui, per godere dell’aria di mare. Non ultimi, a Gedda sono stati accolti altri pellegrini - gli amanti dell’arte antica, moderna e contemporanea, nel segno dell’Islam - nei cinque mesi di esposizione della seconda edizione della Biennale di Arte islamica, che ha chiuso il 25 maggio. La prova provata del disgelo saudita nei confronti del Qatar e dell’operazione di soft power congiunta con tutti gli altri partner della Lega Araba.

 

La curatela dell’Esposizione è stata affidata a un gruppo internazionale guidato dal direttore artistico Abdul Rahman Azzam, affiancato da Julian Raby, direttore emerito del Museo nazionale di arte asiatica dello Smithsonian Institution, e da Amin Jaffer, direttore della Collezione Al Thani: è una scelta che ormai il regno saudita opera su tutta la linea culturale del progetto Vision 2030. Da Marajah ad al-Daryya, da al-Ula a Gedda, il turismo, per ora non di massa e più spesso di lusso, poggia su operazioni di restauro archeologico e architettonico che richiedono ottime consulenze internazionali, soprattutto francesi. Alla biennale di Gedda, il rapporto più stretto è con Stati Uniti e Qatar. Dallo Smithsonian Institute provengono molti dei pezzi unici della Biennale del padiglione AlMadar (“L’Orbita”), soprattutto dal fondo “Near East”, che costituisce il cuore del Museo Nazionale di Arte Asiatica: piatti, coppe, ornamenti, sculture con forme animali o antropomorfe, vasi, iscrizioni, rilievi dal Mediterraneo all’Afghanistan, ma soprattutto astrolabi e oggetti per l’osservazione celeste e il calcolo matematico.

 

Dalla Collezione al-Thani, di proprietà della famiglia degli emiri del Qatar, arrivano gli oggetti più preziosi: segno chiaro che la distensione tra Doha e Riad è ormai un fatto compiuto e che gli anni delle guerre sulle concessioni televisive sul calcio e sullo sconfinamento dei cammelli tra i due confini sono acqua passata. A metterle d’accordo, è la necessità di avvicinare il mondo occidentale all’arte islamica: non a caso il titolo dell’Esposizione, “And All That Is In Between”, ricalca un versetto del Corano (38,27) che narra la creazione «del cielo e della terra e di tutto ciò che vi è nel mezzo», dunque degli esseri umani e anche di tutto quanto essi sappiano riprodurre per definire le meraviglie del creato. Il viaggio è sensoriale e spirituale, parte dalla tradizione e non disdegna l’innovazione: esplora il modo in cui la fede è stata vissuta ed espressa dagli artisti nel corso dei secoli. E dedica ampio spazio all’arte contemporanea, sconfessando così l’idea coloniale che vorrebbe il mondo islamico incapace di pensarla, crearla, mostrarla, anche su temi religiosi e “creazionisti”.

 

Così, questa Biennale, nei suoi sette padiglioni tematici, è anche l’Esposizione delle “prime volte”. La prima volta che si espone la “kiswa”, ossia il drappo nero che copre la Ka‘aba alla Mecca - uno dei pezzi più straordinari della Biennale - custodito nel padiglione Al-Bidayah (“L’inizio”). Per la prima volta nella storia, il prezioso telo è stato esposto integralmente fuori dalla città santa, offrendo ai visitatori un’occasione unica per ammirarlo da vicino. L’esposizione celebra peraltro il centenario dell’inizio della produzione della “kiswa” in Arabia Saudita. Ogni anno, all’inizio del mese di Muharram, il drappo viene sostituito con quello nuovo, la cui produzione richiede nove mesi di lavoro. Tradizionalmente, il telo dismesso - in pregiata seta nera e decorata con ricami in filo d’oro - viene smembrato in piccoli frammenti e donato ai pellegrini.

 

Le altre prime volte di questa Biennale riguardano la generosa manifestazione di arte contemporanea ispirata alla spiritualità islamica. Tra queste spicca “Mishkah”, l’installazione di Ahmad Angawi, artista saudita originario di Gedda. L’opera consiste in una lampada realizzata in legno intagliato con eleganti motivi geometrici ispirati ai lampadari delle moschee. La luce è anche il fulcro dell’opera “Light Upon Light” dell’artista britannico Asif Khan: un Corano formato da 604 sottilissimi fogli di vetro su cui il celebre calligrafo arabo Uthman Taha ha vergato in oro i versetti del testo sacro dell’Islam. Osservando l’opera in controluce, si svela in modo straordinario la prima sura del Corano, Al-Fatiha (“L’Aprente”). Il titolo dell’installazione richiama il celebre versetto della luce (Corano 24,35), che descrive Dio come la «luce dei cieli e della terra», «Luce su Luce» che non si estingue mai.

 

Ahmad Mater, artista originario di Tabuk, interpreta in chiave simbolica il rito della circumambulazione della Ka‘aba con “Magnetism”, un’installazione che evoca il movimento circolare dei pellegrini attorno al santuario della Mecca. La Biennale espone anche l’opera di un italiano, il vicentino Arcangelo Sassolino, la cui opera “Memoria del divenire” è una riflessione sul tempo, la trasformazione e la natura effimera dell’esistenza. L’installazione presenta un grande disco metallico, montato su una parete e rivestito di un denso olio industriale. In un movimento costante, il disco ruota lentamente, lasciando cadere gocce di liquido a intervalli irregolari. La sua rotazione ininterrotta diventa simbolo dello scorrere del tempo, mentre il gocciolare lento e imprevedibile del liquido richiama l’inevitabile fluire e mutare della vita. E richiama alla memoria la densità dell’oro nero, quel petrolio che ha cambiato per sempre la storia dei Saud e, come dimostra la visita di Donald Trump nel Golfo, anche la nostra.

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