A prima vista il nuovo album di Boosta sembra uscire da un altro mondo. O meglio, lontano dalla galassia in cui si tenderebbe a collocare il tastierista e confondatore dei Subsonica senza conoscere i suoi lavori in solitaria. Prima di ascoltare “Soloist”, il bel disco fresco di stampa di Davide Dileo, occorre fare un piccolo sforzo: dimenticare per un istante i ritmi incalzanti che accompagnano i Subsonica da sempre, la voglia di ballare, la voce di Samuel. Gli otto album di platino, gli stadi pieni, le centinaia di migliaia di copie vendute. E accedere a un universo musicale all’apparenza distante da quello della band torinese, più appartato. Distante, ma solo in apparenza.
La musica di Boosta, che è anche scrittore, dj e produttore (ha collaborato anche con Mina, Placebo e Depeche Mode), ha a che fare con la classica e l’elettronica colta. I suoi lavori vengono eseguiti al Teatro della Scala, all'OGR di Torino, collabora con artisti e performer acclamati come Roberto Bolle. Ha pubblicato altri album da solista tra cui “Facile” (2021), entrato nelle classifiche specializzate. Ora “Soloist” evoca le atmosfere di Brian Eno e Harold Budd, filtrate attraverso una sensibilità contemporanea. Si muove su sfondi onirici e minimalisti, affronta epiche cavalcate sonore che conducono l’ascoltatore verso esperienze artistiche extramusicali: il video, l’arte astratta, le nuove tecnologie. E così Boosta, 50 anni tondi, guarda avanti ma non rinuncia a voltarsi indietro. Curioso del mondo che verrà. Lo raggiungiamo a Torino per via digitale, seduto al centro di una stanza luminosa con le pareti stipate di vinili. Il suo habitat ideale. Alla vigilia delle prossime tappe del “Soloist tour”: il 14 maggio all’Oratorio Santa Pelagia di Torino, il 16 maggio al Giardino della Triennale di Milano e il 17 maggio al Teatro Verdi di Genova.

“Solist” esplora le infinite possibilità del pianoforte. Qual è il suo mondo musicale di riferimento?
«Ho scritto queste canzoni perché dovevo farlo. La musica è come la calligrafia: cambia con le stagioni della vita. Scriverla è un modo per catturare chi sei in quel momento, un potente ricordo del nostro io in continua evoluzione. “Soloist” racconta un capitolo della mia esistenza. Più passa il tempo, più ho urgenza di scoprire tutto quello che non so, tanto è vero che due o tre anni fa mi sono iscritto come allievo alla scuola di musica elettronica del conservatorio di Torino. C'è un mondo sterminato che non conosco, a cui poter attingere. Il conservatorio è uno Stargate che mi ha riportato alla metà del Novecento, alla musica concreta, all’epoca in cui arrivò Pierre Schaeffer. Quando fai l'artista devi attingere a un bacino di acqua fresca, altrimenti diventa tutto stantìo».
L’anno prossimo i Subsonica compiranno il trentesimo compleanno. Come festeggerete?
«Siamo già al lavoro sul prossimo disco. Questo è forse il primo anno di così grande benessere dei Subsonica dopo tanto tempo. Continuiamo a fare le nostre cose in solitaria, i nostri viaggi personali, ma manteniamo accesi i motori della band. Per i Subsonica il miglior festeggiamento è stare con i piedi sul palco».
Alla vigilia dell’anniversario i ricordi si affastellano. Sappiamo che una delle canzoni più note dei Subsonica, “Discolabirinto (2000), fu scritta da lei e da Morgan. Come andò?
«Una sera Marco (Castoldi, nome d’arte Morgan, ndr) e Andy (cofondatore dei Bluevertigo insieme a Morgan, ndr) mettevano i dischi al Redbox, un locale torinese. Andai a prenderli in una serata particolarmente fumantina, diciamo. Avevamo voglia di suonare, fare cose, eravamo carichi. E così ci siamo chiusi in studio a un’ora improbabile del mattino. Avevo scritto un riff, verso le 5 o le 6 cominciammo a lavorare al pezzo. Io, Marco e Andy abbiamo cantato tutta la notte il demo di “Discolabirinto”, in pratica baciandoci tutti e tre sullo stesso microfono, sussurrando per non disturbare chi dormiva lì vicino. Verso le 11 del mattino abbiamo chiuso il demo e spento la luce. Sono tornato a casa: all'epoca io, Max e Samuel abitavamo in alcuni appartamentini sullo stesso ballatoio a Torino. Ho bussato e sono entrato: li ho svegliati e li ho tirati giù dal letto per fargli sentire la canzone».
Che rapporto ha con il passato? Di recente l’intellettuale francese Alain Finkielkraut ha osservato che «la nostalgia è un sentimento ingiustamente deprecato». È d’accordo?
«Con la nostalgia ho un buon rapporto, sennò non farei musica. Credo che sia uno dei colori di inchiostro preferiti con cui scrivere. La musica è per definizione un collante di memoria, quando ci affezioniamo a un pezzo legandolo a un momento particolare della nostra vita. Amo la nostalgia, a patto che non sia un sentimento sterile: “Ah, com'era una volta”».
Come musicista è sempre stato aperto alle sperimentazioni. Cosa pensa dell’intelligenza artificiale? Qualche tempo fa nel Regno Unito un gruppo di mille artisti ha protestato contro il governo britannico e le nuove politiche sul copyright, che permetterebbero alle società di intelligenza artificiale di addestrare i propri modelli con le opere protette senza chiederne la licenza.
«Per adesso sono assolutamente laico. Come tutte le tecnologie dovrebbero essere a disposizione dell'intelligenza umana. È così da sempre. Quindi per ora ben venga l’intelligenza artificiale per la musica e in altri campi. Dipende dall'utilizzo che ne fa chi ce l'ha in mano. Non so se evolverà in un ecosistema autosufficiente e ci farà fare la fine degli schiavi. Non ne ho la più pallida idea».
Le è capitato di scrivere canzoni, tra gli altri, per Mina e Malika Ayane. Cosa le hanno lasciato queste collaborazioni?
«Scrivere per gli altri artisti è molto bello, ma non lo faccio per tutti. Quando scrivi per un artista che stimi, come Malika e Mina, scrivi sapendo che la voce non è la tua, ma è come se questa parte di te fosse un piccolo anelito che poi si trasferisce nell'anima di chi la interpreta».
Per Mina ha scritto la canzone “Non ti voglio più” (2009).
«Avevo presentato a Mina alcuni pezzi a cui tenevo molto. In particolare “Non ti voglio più”: nel demo che cantavo io ha dei cori finali molto beatlesiani. Arriviamo in studio a Lugano e faccio a Mina: “Ci sarebbe da cantare questo finale, un po' così". E lei risponde: “A me piace la tua voce, perché non la canti tu?”. Una scena che non scorderò mai: io nel boot di registrazione e lei, dall’altra parte del mixer, che mi registra mentre canto. Non essendo cantante, puoi immaginare come sia stata agevole la cosa. Mina è una donna straordinaria, di una curiosità e un’intelligenza strepitose. E un carattere come rare volte ho incontrato nella mia vita».
C’è un artista o un’artista a cui guardi con interesse nella scena di oggi?
«Oggi non vedo grandissime sorprese liriche e musicali. Con qualche eccezione: Kae Tempest mi è piaciuta moltissimo quando è uscita, continuo ad ascoltarla volentieri. Liricamente la trovo potentissima. Mi piacciono molto i Sleadorf Mods e apprezzo l’evoluzione di Colin Stetson, partito dal suo sassofono e cresciuto nel mondo delle colonne sonore».
Lei è padre di due ragazze, Lua Clara e Ira Marie, nate dalla relazione con la top model brasiliana Fernanda Lessa. Che rapporto hanno con la musica?
«(sorride) Mi interpellano quando vogliono andare a vedere dei concerti e mi chiedono se posso procurarmi i biglietti. Credo che siano abbastanza fiere, anche se per loro siamo dei vegliardi (sorride). Della mia vita di musicista apprezzano, credo, quando incontri qualcuno che ti riconosce, ti ferma, ti fa un complimento, un sorriso e ti chiede: "Posso offrirti un caffè?”».
Fanno musica?
«Sono ascoltatrici molto diverse tra loro. La mia figlia più piccola è appassionatissima di K-pop coreano, melancholic rock si può dire. L’altra invece passa dagli Arctic Monkeys a Olly con grande disinvoltura».