Con i piedi nella tradizione del Sud degli Stati Uniti, un’America profonda e smarrita, Michael Bible racconta la periferia umana come pochi altri scrittori. La sua prosa è diretta, essenziale e si muove agilissima tra il lirismo di Beckett e la spietatezza di Faulkner. In “L’ultima cosa bella sulla faccia della terra” (Adelphi) Bible racconta di Iggy, ragazzo del Sud che senza volerlo appicca il fuoco nella chiesa della sua piccola città, uccidendo trenta persone. Inizia così la narrazione corale dei sopravvissuti, i cittadini di Harmony, e delle loro vite scosse dall’evento. Con “Goodbye hotel” (pubblicato sempre da Adelphi) Bible torna ad Harmony, ma questa volta per la storia di Francois. Rifugiatosi nel Goodbye hotel a New York, ricorda eventi di trent’anni prima: un incidente notturno, che coinvolge lui ed Eleanor, una tartaruga veggente e una setta misteriosa. Anime in bilico, Bible le racconta con grazia e disperazione insieme.

Immaginate il passato. “Goodbye hotel” comincia così, con un invito, per certi versi, a riscrivere la storia. Bible, quanto del nostro passato è pura finzione, riscrittura, e quanto è realtà?
«Sono convinto che vivere sia come viaggiare in treno sedendo con le spalle rivolte alla direzione verso cui si procede. Ragion per cui siamo in grado di capire quel che ci capita solo quando è già accaduto, quando è passato, quando tutto ciò che possiamo fare è osservarlo mentre si allontana, mentre si tramuta in ricordo – un ricordo sempre più distante, incerto e, infine, difficilissimo da scorgere».
Se questo è il presente, il passato, invece, cos’è?
«Conosce il telefono senza fili? È un gioco che si fa da bambini. Sussurri una parola nell’orecchio di chi ti sta vicino, che poi la sussurra a quello accanto e così via, fino ad arrivare a una parola che, sì, somiglia a quella che era stata pronunciata all’inizio, ma non è la stessa. La memoria la vivo così: un telefono senza fili a cui gioco con i me stesso del passato».
Tornando al concetto iniziale, al riscrivere, immaginare il passato. Crede sia un meccanismo di difesa?
«Forse sì. Le faccio un esempio. Negli Stati Uniti tanta gente ha una passione per le rievocazioni storiche – specie nel Sud. Ci sono addirittura delle colonie in cui la gente vive come nel passato: potresti andarci per una visita e trovare una donna che sbatte il burro, vestita come vivesse in un’altra epoca, potresti chiederle se ha un caricabatteria per cellulari e lei risponderebbe che non sa di cosa tu stia parlando. Gli americani sono ossessionati da cose simili perché sono dei grandi nostalgici ma la nostalgia è diversa dal ricordo: è una versione smagliante del passato – appunto, una riscrittura. E se sono tanto nostalgici, in fondo in fondo, è perché ne sentono l’esigenza – per tornare alla domanda. Sentono l’esigenza di riscrivere il passato».
Entriamo nel libro. È tornato ad Harmony, la piccola città del Sud degli Stati Uniti di cui aveva scritto nel suo romanzo precedente. Perché?
«Harmony è il Sud da cui vengo, in cui sono nato e cresciuto, e scriverne mi aiuta a dare un valore alla scrittura stessa. Se scrivi con il tuo sangue, ha detto qualcuno una volta, devi stare attento: è una cosa finita, ne hai solo una certa quantità, per cui deve valerne davvero la pena».
È mai tornato nella sua Harmony?
«No. C’è qualcosa che amo nello scrivere di un posto da esiliato. Lou Reed ha scritto un album su Berlino senza esserci mai stato, Kafka sull’America senza esserci mai stato. Non volevano descriverle, volevano arrivarci, raggiungerle. In fondo, la finzione in narrativa è aggrapparsi a qualcosa che non c’è più, è cercare di fermare il tempo, incorniciare l’immagine di qualcosa che muore».
Tornerà mai nella sua Harmony?
«Lì per me non c’è niente».
Le dispiace?
«No, anzi. Non vivendo più lì, la città nella mia mente è diventata più grande, ricca, piena. Se invece fossi e andassi in giro a registrarne ogni dettaglio, pure quello diventerebbe un elemento finito, e potrei scriverne solo fino a un certo punto».
Le manca?
«Da ragazzino la odiavo con tutto il cuore. Ma la distanza ha cambiato le cose, ha cambiato me e lei. Per cui non la odio più, ma non mi manca neanche, no».
Parliamo di due delle sue protagoniste: le tartarughe. Perché ha deciso di dare tanta importanza a questi animali?
«Sono germofobo e non sono mai stato un amante degli animali, anzi. Ma mia moglie li ama: ne è ossessionata. Non possiamo fare una passeggiata senza che lei decida di accarezzare ogni cane che incontriamo per la strada. Quando siamo andati a convivere, anni fa, era da poco morto il suo cane, un animale a cui teneva tanto. Naturalmente, nel giro di pochi mesi ne abbiamo preso uno – come potevo dire di no?, l’altro era appena morto. Mi ha cambiato la vita. Oggi amo gli animali. E li osservo moltissimo. Hanno un modo di concepire il tempo diverso dal nostro, e gli uni dagli altri. E questa cosa mi affascina».
Perché, però, proprio le tartarughe?
«Perché possono vivere molto a lungo. Centinaia di anni. Non è incredibile? E questo è soprattutto un romanzo sul tempo».
Sono testimoni della condizione umana. Figure divine?
«Se intende divinità come quelle greche, forse sì. Di certo, hanno una rilevanza spirituale nel romanzo. Sono delle chiaroveggenti, possono predire il futuro, e questo le accosta a delle figure divine».
Lei crede?
«No. Penso che Dio sia una nostra idea. Strana cosa la fede, ci ho messo molto a capirne il funzionamento: è come assumere un placebo. Una magia per me: questo placebo dà speranza alle persone, dà loro la forza di andare avanti pure nei momenti di disperazione più grande».
Le dispiace non essere credente?
«Non so, non l’ho mai vista così. Invidio il loro stoicismo, con cui affrontano le cose peggiori. Sì. E pur non comprendendo l’idea che dopo la morte ci sia qualcosa, mi piace il modo con cui la religione unisce le esistenze di chi resta dopo la morte di qualcuno».
Ha paura della morte?
«No, non sarò lì a farne esperienza: cesserò di esistere. Quindi, perché dovrei aver paura?».
