L’amore che non muore (L’amour ouf) di Gilles Lellouche è un film che convince quando racconta la giovinezza e si perde nella maturità

Parola d’ordine: esagerare. Una super-mega-storia d’amore banale e totale ma spesso irresistibile che abbraccia due decenni e diverse classi sociali. Una colonna sonora che saccheggia tutti i miti del pop rock anni 80-90 (The Cure, Billy Idol, Depeche Mode...) e qualcuno di più. Un budget monstre, 36 milioni e altrettanti di incasso in casa. Un cast che pesca tra i più bei nomi del cinema francese ma vola grazie a due ragazzini semisconosciuti che rubano la scena a tutti e toccano il cuore, l’elettrica Mallory Wanecque e lo sfrontato Malik Frikah, cioè Jacqueline e Clothaire.

 

Lei orfana di madre morta sotto i suoi occhi, un padre che la adora e la cresce in solitudine a Dunquerque. Lui figlio ipercinetico di famiglia povera ma a suo modo felice, papà portuale rassegnato, casa chiassosa e generosa. Un predestinato alla piccola e poi grande delinquenza che conquista la studiosa Jackie a forza di bravate, di faccia tosta, di ostinazione. Insomma d’amore. E infatti il titolo originale, “L’amour ouf”, significa “L’amour fou” in verlan, il gergo francese che ribalta le sillabe e potenzia i significati. Con un’ingordigia infantile – e universale – che è anche la chiave di questo film discontinuo, squilibrato, eternamente sospeso tra il cliché e il sublime, una prima parte (l’adolescenza) memorabile e una seconda (Jackie e Clothaire adulti dopo una lunga ellisse) meno convincente. Ma sempre pronto a buttarsi nella mischia, a frullare generi e stili, a colpirci con un dialogo, un’idea di regia, un gesto o uno sguardo che trasuda verità.

 

Il genere di film a cui perdoni molto perché attraverso i due protagonisti presi da un romanzo dell’irlandese Neville Thompson (“Jackie Loves Johnser, ok?”) non passano solo sentimenti, grandi temi (la violenza fisica e quella verbale), riferimenti cine-letterari di ogni sorta, dal “Conte di Montecristo” a Coppola, Scorsese o “Flashdance”, ma una nota di speranza che contrasta felicemente con la durezza generale. Sicché, se è difficile non accusare il calo di tensione della seconda parte, è impossibile non divertirsi e perfino emozionarsi davanti alla foga contagiosa del primo atto, a quel padre disilluso che spegne gli entusiasmi del figlio incantato dallo splendore di una pozzanghera (scena memorabile); o all’impagabile Benoit Poelvoorde, il capoclan che impartisce una grande lezione criminale al giovane Clothaire («Il sacrilegio è l’alibi migliore»). Superstar in patria, già autore del piccolo e perfetto “Sette uomini a mollo”, come molti attori-registi Gilles Lellouche non brilla per rigore ma ha un’arma segreta. Il senso della dismisura.

Azione! E stop

Alla Bottega della Sceneggiatura, concorso under 30 lanciato dal Premio Solinas e Netflix, vince la giovane Hamatou Compaoré, origini romagnolo-burkinabé con “Di venerdì si mangia il gombo”. In un panorama audiovisivo come il nostro, che più bianco non si può, è una notizia impossibile da sottovalutare.

 

Non sparate sugli autori. Per attaccare il cinema, passatempo da ricchi di sinistra come usa dire ultimamente, si citano sempre autori e attori, mai i produttori. Eppure sono loro a ricevere finanziamenti, sostegni, tax credit. Un trucchetto, giustamente denunciato dalle associazioni degli autori. Il dramma è che spesso funziona.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Le crepe di Trump - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 13 giugno, è disponibile in edicola e in app