La censura, le battaglie delle donne, il coraggio di chi fa cinema. Nel suo “Buonanotte a Teheran” il regista iraniano narra la storia di Amir, spacciatore ai margini: “La società è cambiata”

Resto in Iran e lotto con i miei film - Colloquio con Ali Ahmadzadeh

«Siamo nella m**a più totale». Una sintesi efficace e colorita, quella che il regista iraniano Ali Ahmadzadeh usa per descrivere il momento storico che vivono gli artisti e in generale i cittadini in lotta contro il regime in Iran. Per questo ha dovuto girare il suo nuovo film “Buonanotte a Teheran-Critical zone” di nascosto, essendo già considerato un regista scomodo, i cui film sono vietati nel Paese per motivi politici e di censura. Quando ne parla la connessione Internet salta di continuo: «Non è sicuro parlare di politica in Iran, la Repubblica Islamica è sempre in controllo», spiega. Il suo film, in anteprima al Milano Film Festival e in uscita sul Prime Video Channels di Iwonderfull (piattaforma streaming del distributore indipendente I Wonder Pictures), racconta la storia del solitario Amir, uno spacciatore che gira tra chi vive ai margini a Teheran.

 

Com’è girare un film clandestinamente in Iran?

«Come un’operazione di spionaggio. Se mentre giri ti arrestano hai perso tutto, succede a volte che la polizia faccia irruzione durante le riprese di un film indipendente, perché in qualche modo lo viene a sapere. Quindi giro con persone fidate, in modo top secret, mandando il materiale girato in un luogo lontano così da non perderlo se venissi arrestato. Vivere come un artista indipendente è ormai uno stile di vita per molti di noi, una lotta continua, una battaglia che accomuna non solo gli artisti, ma anche i cittadini. Tutti stiamo lottando, non c’è nulla di simile altrove nel mondo».

 

Cos’è che il regime non perdona agli artisti, soprattutto?

«Il regime ha sempre avuto delle linee rosse da non oltrepassare, che vengono continuamente spinte oltre. Ma ormai nell’arte c’è una corrente fortissima di consapevolezza e ribellione, tutte le linee rosse sono state superate, penso alla questione del velo delle donne e alle questioni di sicurezza nazionale, ma anche al trattare temi erotici sessuali, al criticare anche ironicamente la religione. Gli artisti iraniani sono di gran lunga “avanti” rispetto al regime».

 

Che significato assume in questo contesto la Palma d’Oro appena vinta a Cannes da Jafar Panahi?

«È un premio che porta gioia e speranza a tutti noi registi indipendenti della comunità underground iraniana. Jafar è un mio amico di vecchia data, e a Cannes c’era un altro film proveniente dal mondo ufficiale governativo (“Mother and Child” di Saeed Roustaee, ndr). Per avere l’autorizzazione del ministero devi mostrare gli iraniani solo secondo le regole del regime, ad esempio le donne nel film devono per forza indossare il velo. Noi registi indipendenti quindi riteniamo che chi porta i film approvati dal governo in realtà racconti le menzogne del regime, mentre noi vogliamo raccontare al mondo la verità. Come fa Panahi, uno di noi. Ci riempie di orgoglio».

 

Il suo “Buonanotte a Teheran-Critical zone” nasce come film di finzione ma ha parecchi aspetti di verità.

«Quando proviamo a produrre anche solo finzione finiamo per realizzare documentari, perché la necessità di documentare è più urgente di tutto. Ho lavorato con dei non attori perché volevo gente reale in situazioni vere, la realtà prendeva di continuo il sopravvento sulla finzione che avevo in mente. Poi quando giri in clandestinità è sempre “buona la prima” e questo fa sì che il prodotto finale sia pieno di verità».

 

Ci sono tanti ragazzi in Iran come Amir?

«In Iran ci sono moltissimi spacciatori, non solo di droga, ci sono tantissime cose proibite in Iran che vengono “spacciate” clandestinamente. Pensavo fosse interessante spostare il punto di vista e mostrare il nostro Paese attraverso la prospettiva di uno spacciatore, non solo perché il consumo di droghe in Iran è aumentato a dismisura, ma perché poi Amir è uno spacciatore anche un po’ terapeuta, aiuta gli altri come può. Il regime non vuole che venga mostrata la realtà, tende a presentare al mondo esterno l’immagine di uno Stato islamico tradizionale e religioso, ecco perché nel film cerco di ritrarre nel modo  più nudo e radicale possibile la città di Teheran come un grande istituto psichiatrico, pieno di persone allo stremo, ma anche di persone che lottano. Come noi, con le nostre telecamere».

 

Le proteste dopo la morte della ventiduenne Mahsa Amini, uccisa dopo essere stata arrestata per aver indossato impropriamente l’hijab, cosa hanno cambiato?

«La società iraniana è cambiata. È stata uccisa una ragazza per qualche ciocca di capello fuori dal velo, questo ha alzato un’ondata di proteste in Iran. Gli iraniani, giovani, donne e uomini, si sono indignati per l’ennesimo atto di oppressione e dopo due anni e mezzo oggi le donne che non vogliono indossare il velo decidono di non portarlo. L’Iran è molto cambiato, è diventato una casa in cui le pareti sono state tinte di un altro colore».

 

Anche la situazione delle donne è cambiata?

«C’è chi sostiene che il movimento Donna Vita Libertà sia stato sconfitto. Penso invece abbia vinto perché le donne possono scegliere di non indossare il velo e di manifestare le loro idee liberamente».

 

Perché ha deciso di non lasciare l’Iran?

«Per lavoro, per motivi personali, ma soprattutto per i miei principi. Partire sarebbe come scappare e io non voglio farlo, voglio continuare a fare il mio lavoro, lottando, come regista indipendente, nella comunità underground iraniana che ha tanto da dire al mondo».

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