“Anna della pioggia” è una raccolta di racconti ritrovati della scrittrice Michela Murgia. Storie brevi su miti, la Sardegna, le donne riunite con la cura di Alessandro Giammei. Come “Pudore”, che pubblichiamo in esclusiva

Il segreto della mimosa pudica

La ragazza era bellissima, ma questo me lo aspettavo. Castana, con due occhi scuri dal taglio alto e le unghie color caffè fresche di manicure, mi sedeva davanti con una sicurezza che confinava con l’arroganza. Era brava e aveva esperienza, lo avevo visto dal curriculum, ma ci teneva a farmi capire che ne era consapevole. Sorrisi. Apprezzavo l’ambizione nelle donne, perché era rara al punto che per molti anni avevo pensato che le femmine ne fossero geneticamente incapaci, destinate alla seconda fila per una sorta di volontà di natura. Sempre pronte a un passo indietro, disponibili al servizio gratuito, accomodanti e sorridenti, ne avevo viste decine farsi scavalcare da colleghi per niente concilianti, a volte meno bravi di loro, ma infinitamente piú determinati a farsi valere.

 

Un’amica sociologa mi aveva spiegato che era questione di educazione: se vieni programmata sin da bambina per sorridere, compiacere e assecondare, sarà impossibile per te pensare che le cose possano essere ottenute anche in modo diverso. È per questo che le bambine a scuola vanno spesso meglio dei maschi: nei sistemi gerarchici dove si premia la docilità, chi obbedisce di più è avvantaggiato. Ma quando si esce dalla scuola le cose cambiano e se quello che hai imparato a fare meglio è obbedire, non c’è niente di strano se sarà esattamente quello che ti ritroverai a fare per tutta la vita. Quella ragazza evidentemente aveva fatto un percorso diverso. Qualcuno l’aveva convinta che non doveva scusarsi di essere capace. Che non c’era niente di vergognoso nel voler emergere. Che se vuoi qualcosa nella vita, devi dimostrare di essere in grado di sapertela prendere. Sorrise anche lei e su quel lampo di denti perfetti le cominciai il provino.

 

Alzai la mano e schioccai le dita. Lei iniziò a recitare.

 

- Quando feci l’ingresso in società avevo quindici anni; e io già sapevo che il ruolo a cui ero condannata, vale a dire stare zitta ed obbedire ciecamente, mi dava l’opportunità ideale di ascoltare e di osservare. Schioccai ancora le dita e lei, senza un’esitazione, passò all’inglese con scioltezza, proseguendo il monologo della marchesa di Merteuil come se quella fosse la sua lingua madre. Aveva un accento anglosassone quasi privo di inflessioni, forgiato con ogni probabilità in un ambiente oxoniense.

 

Schioccai le dita di nuovo e lei tornò fluidamente all’italiano. Quel monologo tratto dalle Relazioni pericolose costituiva la prova cardine per l’assegnazione di una parte nel mio spettacolo, ma fino a quel momento nessuna delle attrici che avevo incontrato era stata capace di convincermi che poteva reggere la parte di donna spietata e ferita che avevo in mente. Quella ragazza aveva un carisma personale che mi fece sperare di aver finalmente trovato la mia protagonista. Il suono della sua voce era ipnotico, da contralto fumatore.

 

– Imparai a sembrare allegra, mentre sotto la tavola mi piantavo una forchetta nel palmo della mano, e finii per diventare una «virtuosa nell’inganno». Non era il piacere che cercavo, era la conoscenza. E consultavo i piú rigidi moralisti, per la scienza dell’apparire, i filosofi, per sapere cosa pensare, e i romanzieri, per capire come cavarmela; e alla fine io ho distillato il tutto in un principio meravigliosamente semplice: «vincere o morire».

 

– Ottimo, – dissi posando la penna che tenevo in mano. – Direi che può bastare. Lei tacque e per la prima volta notati nel suo corpo magro ed elegante un segno visibile di tensione. Erano le mani contratte in grembo, due ragni pallidi che si sciolsero lentamente dall’abbraccio che li aveva avvinti fino a quel momento.

 

– Ho la parte? – chiese con una mancanza di cautela che mi deluse. La fissai severo. Avevo deciso di dargliela, ma quella evidente bramosia mi fece tentennare. Era meno sicura di quanto volesse mostrare, in fondo.

 

– Non ancora. Strinse le labbra, ma non la vidi stupita né agitata, anzi sembrò calmarsi. Era come se il non trovare troppi ostacoli l’avesse sconcertata, e ora, davanti alla mia esitazione, trovasse ragione di rassicurazione: non era tutto facile, doveva ancora combattere. Con voce piú ferma mi incalzò:

 

– Vuole che ripeta il monologo?

 

– No. Mi alzai e andai alla finestra, dandole le spalle. La stanza era accesa di quella luminosità gentile che in Sardegna c’è solo all’inizio della primavera, un calore che aveva ancora qualcosa di fresco, molto lontano dall’afa schiacciante che avrebbe ucciso ogni traccia di verde nei campi già alla fine di maggio. Era quella mitezza del clima che mi induceva a lasciare fuori le piante in vaso, sicuro che non rischiassero la morte per il sole. Gli occhi mi caddero sulla mimosa pudica, una delle mie amiche vegetali predilette, e le sue foglie frastagliate sembrarono vibrare a una brezza che oltre il vetro io non percepivo.

 

Colto da un’idea fulminea, aprii la finestra e afferrai il vasetto, tirandolo dentro. Lo fissai per un istante, poi mi voltai verso la scrivania e mi ci diressi. La ragazza mi seguiva con lo sguardo, in attesa. Le misi la pianta davanti come un’accusa e sorrisi serafico.

 

– La creatura che vede è una mimosa pudica. Lei sa cosa è una mimosa pudica? Esitò prima di rispondere. Non era questa la prova che si aspettava.

 

– No...

 

– È una pianta sensitiva. Se toccata da qualcuno che soffre, reagisce ritraendo le foglie.

 

L’attrice mi fissò incredula mentre mentivo senza tentennamenti. In realtà la mimosa pudica reagisce meccanicamente a qualunque tocco, ma con ogni evidenza lei non ne aveva mai vista una e su quell’ignoranza io intendevo costruire il mio piccolo inganno.

 

– Ora la prego. Si concentri. Si immedesimi in una donna ferita, dalla sofferenza feroce, piena di rancore e di memoria per le ingiustizie subite. Voglio rabbia, voglio dolore, voglio progetti di vendetta. Quando crede di essere pronta, allunghi una mano e sfiori con un dito le foglie della pianta. Se convince la pianta a crederle, la parte è sua. La ragazza era impallidita.

 

– È impossibile... – sussurrò.

 

– Non ho sentito bene, signorina. Può ripetere? Fissava alternativamente me e la piantina, incapace di credere che le stessi davvero chiedendo di convincere un vegetale a dare credito al suo recitato dolore. Esitò, ma solo un istante.

 

– Niente.

 

Rimasi impassibile: sapevo che non aveva scelta, tranne quella di rifiutare la prova, alzarsi e andarsene, ma non lo fece. Chiuse gli occhi e si concentrò. La vidi fremere appena, contrarre di nuovo le mani in grembo e poi restare immobile forse per sei, forse sette minuti, che parvero lunghissimi anche a me. Poi aprí gli occhi e senza guardarmi protese la mano alla mimosa, sfiorando con la punta color caffè dell’indice la frangia lanceolata delle minuscole foglie. Accadde esattamente quello che avevo previsto. La sua espressione quando vide le estremità verdi chiudersi al suo tocco era un capolavoro di sbalordimento che non sarebbe mai riuscita a rifare identico in alcun teatro. Sotto la sua carezza la piantina ritraeva le foglie con un movimento sincrono perfettamente percepibile che si fermò solo quando la superficie sfiorata fu completamente chiusa su sé stessa, protetta da quel calore estraneo, per lei minaccioso. Con il dito ancora sospeso in aria, l’attrice mi fissava. Battei lentamente le mani.

 

– Molto bene. Complimenti. La parte è sua.

 

Incredula, la ragazza cercava di ricomporsi per non mostrarmi quanto fosse turbata dall’apparente miracolo a cui aveva assistito. Quando si alzò feci finta di non vedere che le tremavano le ginocchia. Sapevo che quella scena sarebbe stata raccontata decine di volte ad amici, parenti e fidanzati, ma la mimosa pudica era una pianta delicatissima quasi sconosciuta nei giardini domestici ed erano in pochi a conoscere il segreto del suo comportamento. Dubitavo che qualcuno le avrebbe mai creduto.

 

Quando lasciò la stanza mi sedetti e fissai con gratitudine la mia piccola complice verde. Ero compiaciuto e soddisfatto. La ragazza era stata bravissima, ma io lo ero stato di piú: lei mi aveva convinto di essere la marchesa di Merteuil e io l’avevo convinta di essere la piú grande  attrice mai vista in terra, capace di piegare una pianta alla compassione e alla paura. Non vedevo l’ora di vedere cosa avrebbe fatto sul palcoscenico una donna con addosso quella sicurezza di sé. Sorridendo protesi la mano alla mimosa e la sfiorai grato, aspettandomi la consueta ritrazione delle foglie. Fu allora che accadde quello che non mi aspettavo: niente.

 

Sorpreso, la sfiorai con piú decisione, ma di nuovo le foglioline non reagirono. Mi alzai e le andai vicino. La toccai ancora, stavolta con la pienezza del palmo, ma incredibilmente la pianta mi ignorò. La guardai a lungo, spiando la sua immobilità imprevista, senza sapere cosa pensare di quel boicottaggio improvviso. Rimasi davanti al vaso quasi un’ora e dopo molti tentativi privi di esito dovetti arrendermi all’evidenza: la pianta non si muoveva.

 

Mi risedetti alla scrivania.

 

Non ricordo per quanto tempo rimasi fermo lí in silenzio, fissandola. Con gli occhi impigliati alle sue foglie statiche, ostinatamente immobili, sentivo crescere un’assurda certezza: qualunque cosa fosse accaduta quando la ragazza l’aveva sfiorata, la mimosa ora a me non credeva più.

© 2025 Eredi di Michela Murgia

© 2025 Giulio Einaudi editore s.p.a., TorinoPubblicato in accordo con Viva Agenzia Letteraria

 

La voce unica di Michela

Intellettuale impetuosa, appassionata, radicale; collaboratrice per anni de L’Espresso fino a curare una storica rubrica del nostro settimanale per lei ribattezzata al femminile, L’Antitaliana, Michela Murgia è stata prima di tutto una grande scrittrice. “Anna della pioggia”, la raccolta di racconti inediti appena arrivata in libreria, pubblicata da Einaudi, lo conferma: Alessandro Giammei, professore di Letteratura italiana alla Yale University e figlio d’anima dell’autrice ha riunito in un unico volume storie lette ad alta voce nelle scuole e nei teatri occupati, durante un festival o per un programma di sala, nel suo blog o su un giornale locale. Racconti dai registri diversi, con protagonisti differenti, ma con un tono inconfondibile, il suo: vibrante, emozionante, attento a cogliere l’unicità di ogni vita. Come nel racconto qui pubblicato: eredità preziosa di una voce che manca a questo Paese.

Sabina Minardi

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