Gigante della scultura, ha trasformato il bronzo in poesia. E dimostrato che l'arte può essere universale senza mai perdere identità, monumentale senza essere retorica, geometrica senza essere fredda

Addio ad Arnaldo Pomodoro, le sue sfere continueranno a raccontare il mondo

A poche ore dal suo centesimo compleanno, si è spento nella sua casa di Milano Arnaldo Pomodoro, ultimo narratore della scultura italiana, colui che ha dato alle superfici una forma perfetta e matematica, riuscendo a trasformare quest’ultima in poesia e il bronzo in carne, una materia da sentire prima che da modellare, da scolpire e trasformare ancora fino ad ottenere – nella maggior parte dei casi – delle sfere, il suo simbolo artistico.

 

Tutte le volte che l’abbiamo incontrato – al Palazzo Reale di Milano, la sua città adottiva (era nato nel 1926 a Morciano di Romagna) dove nel 1995 aveva fondato la Fondazione che porta il suo nome e che dieci anni fa gli dedicò la sua antologica, a Roma come a Venezia – si è sempre divertito a chiamarle “macchine mitologiche”, perché le stesse erano e sono “delle sfere imperfette che ci invitano a guardare, ad attraversare un mondo, ma – soprattutto, ribadì – ad abitarlo, pensando a un passato lontano per vivere in un presente pieno di dubbi e incertezze”.

 

L’artista – fratello di Giorgio Giò Pomodoro, anche lui artista, con cui fondò, insieme a Giorgio Perfetti, il gruppo/laboratorio 3P per valorizzare l’arte orafa – ha dimostrato che la scultura poteva essere universale senza mai perdere identità, monumentale senza essere retorica, geometrica senza essere fredda. Le sue sono delle vere e proprie ferite nel bronzo che si interrogano sul doppio rapporto tra superficie e struttura, tra un ordine e un disordine.

 

Quelle sfere hanno aperto varchi nell’anima della modernità, rivelando che la bellezza non sta nella perfezione, come dicevamo, ma nella capacità di mostrare la propria vulnerabilità. “Le mie sfere sono degli organismi a sé stanti capaci di trovare una giusta, mai perfetta, dimensione, perché la loro è una perfezione solo apparente, visto che sembrano ciò che in realtà non sono”, ci disse. “Sono la metafora della condizione umana, perché nascondono la complessità dell’interiorità. Splendono sempre, ma il loro universo interno è meccanico, disarmonico quanto organico”.

 

“L’arte deve essere di tutti”, ribadiva sempre, “perché non è un patrimonio personale, ma un’ eredità collettiva da trasmettere alle generazioni future, un qualcosa che deve uscire dai musei”. Ed è per questo che dai posti più sconosciuti fino al Vaticano e all’Onu, quelle sfere le ha disseminate ovunque. Nel fare ciò, Pomodoro ha unito piccoli paesini con le grandi città, l’Italia con il mondo intero, creando un suo mondo ideale dove non ci sono confini, discriminazioni, ingiustizie, guerre e violenze che lui, come tanti di noi, odiava e condannava in ogni modo, lanciando e lasciando messaggi di pace con le opere fatte di segni, forme e materiali in una ricerca costante e in una continua tensione tra spazio e (di)segno. Le stesse continueranno a vivere finché esisteranno piazze da attraversare e cieli da contemplare, finché l’arte avrà il potere di trasformare la materia in emozione e la geometria in poesia. La sua produzione artistica è immensa e planetaria e ogni città che ospita una sua scultura custodisce, quasi sempre pubblicamente (tranne le collezioni private), un frammento della sua visione, il significato primordiale e la modernità di un segno che esplora il confine tra scultura e architettura.

 

Tra le opere più iconiche di lui che non fu solo artista (fu anche pedagogo e innovatore ed insegnò nelle università americane più prestigiose come Stanford, Berkeley e il Mills College) ricordiamo il “Disco Solare” (1991) donato alla Russia e collocato a Mosca durante il disgelo post-sovietico, simbolo di un’arte che superava le barriere politiche; “Papyrus” (1992) a Darmstadt; la “Lancia di Luce” (1995), obelisco in acciaio e rame a Terni; il portale bronzeo del Duomo di Cefalù (1998) come gli arredi sacri nella chiesa di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, realizzati in collaborazione con Renzo Piano. Ci lascia in eredità – come diceva – “delle forme sognate” che si divertiva a sistemare sempre in qualche modo “utilizzando il materiale più nobile per fare una scultura che è il bronzo”. “Mi piace scavare la materia e costruire i miei labirinti. Cammino su una superficie che si suppone sia rotonda, la nostra Terra, e sogno, perché senza sogni non riesco a vivere”.

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