È affascinante, intrigante, stilosa, trendy: la grammatica è una gran figata. Ma ci voleva uno strano soggetto da romanzo per dimostrarlo: il professor Marc, un signore d’altri tempi, che dietro un aspetto azzimato – capelli con la riga da una parte, giacca e pantaloni neri, cravatta sottile – è ben più che un umile “paroletario”, uno che si guadagna da vivere con le parole: è “Il mago delle parole” (Einaudi) in persona.
Lo ha immaginato il linguista Giuseppe Antonelli, professore ordinario di Storia della lingua italiana all’Università di Pavia, autore di grammatiche per le scuole e apprezzato commentatore in tv. Riversando su questo strambo personaggio tutta la sua passione per le parole e il piacere di far cambiare sguardo sull’ italiano, trasformandone lo studio nella più entusiasmante delle avventure.

«La grammatica è l’arte di dire le cose nel modo giusto al momento giusto», esordisce l’insegnante, spiazzante come “Il mago dei numeri” di Hans Magnus Enzensberger, rivoluzionario come il protagonista de “L’attimo fuggente” di Peter Weir: «La grammatica è glamour», scandisce sotto gli occhi sbigottiti degli studenti. E mentre spiega la materia come una partita a scacchi, risolve formule etimologiche come quiz, traduce le parole in suoni e in colori, ne inventa di nuove come “lionfante”, conquista alla bellezza delle parole: «Questa dovrebbe essere la missione di noi esseri umani».
Professor Antonelli, con le parole descriviamo il mondo e lo costruiamo, pure. In un mondo in guerra, Papa Francesco prima e ora Leone XIV invitano a “disarmiamo le parole”. Cos’ha pensato, quando l’ha sentito?
«Mi ha colpito molto. Mi ha fatto venire in mente George Lakoff, il linguista-psicologo di “Non pensare agli elefanti” che parla di “weaponize words”, rendere le parole armi. E mi è sembrato che Leone XIV, suggerendo una comunicazione pacata, volesse capovolgere quel concetto. Papa Francesco lo aveva scritto nella lettera al Corriere della Sera, dall’ospedale: le parole possono ferire e possono guarire. Queste espressioni messe in circolazione da figure così autorevoli fanno uscire l’attenzione al linguaggio dalla ristretta cerchia degli psicologi cognitivi e delle persone che si occupano professionalmente di parole. E richiamano alla necessità che tutti se ne prendano cura».
Pensa che sia ancora possibile favorire un registro diverso da quello urlato e aggressivo così pervasivo, tra social e tv?
«È difficile, ma è possibile. Il professore del mio libro suggerisce di dare un nome all’odio, lo chiama “odioletto”, cioè il dialetto dell'odio. L'odio si sta diffondendo anche perché le persone non sono più in grado di argomentare le proprie ragioni, per una carenza di competenze linguistiche e testuali. E non riuscendo a discutere facilmente passano dalle parole alle mani».
Il suo libro è un invito a un uso consapevole delle parole, dei mondi insidiosi che possono creare.
«Il professore racconta alla classe l’aneddoto della “fettona”: la storia di un bambino che non voleva mangiare la carne di fegato, finché la mamma non ha l’idea geniale di ribattezzarla: “Guarda, ti ho preparato una cosa buonissima, una carne nuova chiamata fettona”. È sempre lo stesso fegato, ma il bambino lo mangia. Il professore lega questo aneddoto alla forma che spesso prendono parole nuove o che si presentano come nuove per nascondere, per mimetizzare cose vecchie e terribili. Per rendere accettabile l’inaccettabile. Pensi a “tolleranza zero”, che in realtà è un predicare l’intolleranza. O pensiamo a quello che hanno fatto certi think tank della destra conservatrice negli Stati Uniti, abituandoci tutti, persino gli attivisti, a parlare di “cambiamento climatico” anziché di riscaldamento globale. Perché? Perché fa meno paura. Ma anche il “sovranismo”, in fondo, che cos'è se non un modo per far sembrare meno aggressivo il nazionalismo che, insegna la Storia, rischia di portare alla guerra. L’esempio più recente è la parola “remigrazione”, partita dell'estrema destra austriaca, ripresa in Germania e ora arrivata nel linguaggio politico di alcuni esponenti della Lega in Italia: non indica altro che la deportazione di massa. Questo ci deve mettere in guardia sull’attenzione a parole di cui siamo bombardati quotidianamente: finiscono per creare un mondo falsato, che può portare, attraverso la propaganda, al consenso di massa».
La cura delle parole va di pari passo all’ascolto. Non è anche questa una capacità in via d’estinzione?
«Abbiamo, è vero, una completa disabilità all'ascolto. Tutti parlano, tutti hanno la verità in tasca, nessuno ascolta. Tullio De Mauro, mai abbastanza compianto, citava un filosofo greco che diceva: “Ci sarà pure una ragione se gli dèi ci hanno dato una sola bocca e due orecchie”. Ecco, ricordiamocela quella ragione».
La lingua ci illude pure su conquiste più profonde, penso a termini che riguardano il corpo e il riconoscimento dei diritti di tutti apparentemente inclusivi. Che in un attimo cadono in disgrazia: penso alla schwa, tanto demonizzata, o a declinazione senza sottolineature di genere di certe parole. La lingua fa detonatore all’incertezza e alle paure del mondo?
«La lingua non descrive il mondo, da un lato lo interpreta e dall’altro lo configura. Quindi è certamente il primo termometro dei cambiamenti della società. Ogni volta che c'è un cambiamento nella politica, nel costume, nelle abitudini delle persone anche la lingua cambia e lo rende manifesto e clamoroso».
Vedi alla voce donna.
«Esattamente: le definizioni della parola donna nei vocabolari, fino a non molti anni fa, rispondevano a una sensibilità oggi inaccettabile. Questo vuol dire che ogni ondata ideologica porta con sé conseguenze linguistiche. Basti pensare all’allarme da destra contro il politicamente corretto, e da sinistra contro la lingua di Trump. E questo è significativo perché mostra come la lingua sia uno strumento di egemonia anche politica»
Dunque è inevitabilmente relativa e sconfinata? O la lingua deve avere dei freni?
«In contrapposizioni così frontali non si dovrebbe mai perdere di vista il rispetto reciproco. Parafrasando, non dire agli altri quello che non vorresti fosse detto a te».
Mi fa qualche esempio?
«Un esempio abbastanza clamoroso è una parola ormai inaccettabile per la nostra sensibilità: negro. Il ragionamento che la giustificava era: si è sempre detto così. È un’argomentazione assurda perché non tiene conto dei cambiamenti nella società. Pensi al fumo: fino a qualche tempo fa si fumava ovunque. È una buona ragione per continuare a farlo? No, perché oggi sappiamo che fumare fa male anche a chi non fuma. E così oggi sappiamo bene che le parole fanno male, feriscono profondamente. E questa sensibilità dovrebbe essere qualcosa non in balia di cambiamenti e ideologie, ma un’acquisizione umana».
Il politicamente corretto è morto?
«Penso che la definizione di politicamente corretto sia fuorviante. Intanto perché è una definizione vecchia, viene dalla sinistra degli Stati Uniti come presa in giro nei confronti di chi era troppo ortodosso. Ma secondo me il rispetto reciproco, ribadisco, prescinde dall’idea politica e persino dall'idea di correttezza: non è in gioco se una cosa sia giusta o ingiusta, ma se sia adeguata alla situazione. Il linguaggio dev’essere umanamente rispettoso o, se si preferisce, civilmente responsabile. È una questione di civiltà e di umanità, non di destra o di sinistra».
Non solo il potere di ferire: “Il mago delle parole” mira a dimostrare il grande potere magico delle parole. Una lezione rodariana.
«Questo libro vuole dimostrare quello che le parole possono fare: esprimere la fantasia, l’immaginazione, il gusto del gioco. Sì, volevo celebrare il piacere di imparare a usare le parole, a partire da una frase di Gianni Rodari nella “Grammatica della fantasia”: “Nelle nostre scuole si ride troppo poco”. La prima cosa che fa questo professore è sfatare un tabù: la grammatica non è noiosa, può diventare divertente, la lingua è un territorio di scoperta, sbagliando si inventa. La lingua è il regno della creatività continua».
Voleva essere anche un elogio degli insegnanti?
«Questo professore cerca di stupire ragazze e ragazzi per affascinarli. La magia che volevo sottolineare io è che è veramente una fortuna quando ci capita nella vita di incontrare un maestro. Cioè una figura che ti fa vedere cose che prima non avevi visto e che forse da solo non avresti visto mai, nel mondo e dentro di te. Non per forza un professore o una professoressa, ma magari un sacerdote, un’allenatrice…».
Aveva qualcuno in mente, un ispiratore?
«Questo professore ha un modello narrativo che è il professor John Keating-Robin Williams de “L’attimo fuggente”, metto in esergo la frase di quando arriva e strappa il vecchio libro di letteratura: “Imparerete ad assaporare parole e linguaggio. Qualunque cosa si dice in giro, parole e idee possono cambiare il mondo”. Dentro di me c'è una figura che ha cambiato totalmente la mia vita: era il 1991, io ero al secondo anno d’università e ho incontrato Luca Serianni».
Il grande e amato linguista. Una figura diversissima, però, dal suo personaggio.
«È vero. Questo è bizzarro, estroverso, ha una cartucciera di pennarelli addosso, invita ragazze e ragazzi a scrivere i loro versi preferiti sui muri. Serianni era tutto il contrario, lavorava per sottrazione, ma il suo carisma era fenomenale».
Ci sono altri elementi autobiografici nel libro?
«L’Accademia. Qui si chiama di Arte Grammatica, nella realtà è l’Accademia degli Scrausi. Perché non solo io ero stato folgorato dalle lezioni di Serianni, ma un bel gruppo di persone: nel 1992 fondammo l’Accademia con l’intenzione di continuare a parlare di lingua e organizzare incontri anche fuori dall’aula. Avevamo scoperto che il termine “scrauso” era già attestato nella confessione di una donna accusata di stregoneria nel 1500, Bellezza Orsini da Collevecchio, ci sembrò perfetto. L’Accademia degli Scrausi è stato il primo voto collettivo del Premio Strega. Esiste ancora. Perché le parole creano relazioni, scambio, affetto».
Dia qualche suggerimento pratico agli insegnanti: come si rende desiderabile la grammatica?
«Questo professore porta una ventata di entusiasmo sparigliando, spiazzando, cercando di stupire, evitando tutti gli elementi stancamente rituali dell’insegnamento. Dobbiamo partire dall’idea che il mondo è cambiato. Non si può continuare a insegnare come se non ci fosse la concorrenza sleale di Internet e smartphone. Ma la soluzione non è chiudere la scuola in una bolla né fare i nostalgici di quando si usavano “egli”, “ella”, anziché lui o lei. Partiamo invece dal noto per poi andare verso l’ignoto. Questi ragazzi e queste ragazze non scrivono: digitano microtesti. Ripartiamo da lì, smontiamoli, arricchiamoli, per condurli a gestire un testo compiuto».
Per scrivere bene si deve leggere tanto, si diceva. Vale ancora?
«Ma queste ragazze e ragazzi non leggono, faticano a concentrarsi. Allora bisogna cercare di coinvolgerli, sapendo che vivono in un mondo di engagement. Cosa fanno i telefoni? Richiamano la loro attenzione, risvegliano la loro curiosità. Dobbiamo cercare in classe di cambiare le regole di ingaggio, introducendo il gioco, il gusto dell'enigma, la sfida, la maieutica. La scuola finlandese, che dà i risultati migliori nelle prove internazionali, è chiamata “la scuola delle domande”, perché cerca di stimolare le domande prima di dare risposte».
Gioco, enigma, sfida. Altro?
«L’idea è di alzare progressivamente il livello di difficoltà partendo dall'attualità, dalla realtà che circonda i ragazzi, per poi dare loro le basi del passato. La storia, ad esempio, è fondamentale, e anche la storia della lingua, anche l'etimologia. Ma partiamo dal fatto che tantissime parole, anche le più nuove come “creator”, sono parole latine».
Come “glamour”?
«Glamour ha fatto un viaggio lunghissimo. È partita dal latino, “grammatica”, è arrivata nella lingua francese, diventando “grimoire”, parola usata per riferirsi ai libri di stregoneria. Di lì è passata allo scozzese “glamer”, che significava incantesimo e poi, eccoci qua, all’inglese “glamour”. Che allude a un incanto misterioso, a un irresistibile fascino».
Ascolto e dialogo in questa scuola sono fondamentali.
«Sollecitare i ragazzi con le domande vuol dire ascoltare le risposte. Una cosa che io cerco di sottolineare è l’effetto di coralità un po' stonata che viene fuori dalla classe. La grammatica è l'arte di dire le cose nel modo giusto al momento giusto. Quindi non è un insieme di regole fisse, ma varia a seconda del contesto, dell'interlocutore, dell'effetto che vuoi ottenere. Un insegnamento per me fondamentale e attualissimo è quello di De Mauro, nelle “Dieci tesi per una educazione linguistica democratica”: la scuola non dovrebbe insegnare come si deve dire una cosa, ma in quanti modi si può dire. Se sei con i tuoi amici, se sei a un colloquio di lavoro, se stai parlando con un adulto… La vera competenza linguistica non è nel parlare sempre come un libro stampato ma nell'essere in grado di gestire più livelli, più registri, più varietà».
Mi dica una parola che ama e una che detesta.
«Anch’io sono un “paroletario”, le parole mi danno da vivere e quindi le amo tutte o perlomeno le rispetto. Certo, ci sono parole sicuramente orrende, e in fondo ci piacciono o no essenzialmente per quello che evocano. Forse i termini più emersi da questa conversazione sono “cura” e “rispetto”: due parole che certamente dovremmo amare di più».
