Alla nostra prima intervista disse che anelava all’invisibilità. Perché essendo cresciuto in una famiglia d’artisti e avendo raggiunto lui stesso una fama planetaria come suo padre Kirk, ogni tanto sentiva nostalgia dell’anonimato. C’è da credergli, guardando l’orda di pubblico che ancora corre dietro a Michael Douglas, 80 anni, appena premiato al Taormina Film Festival. Questa volta l’attore, due volte premio Oscar, protagonista di pellicole cult come “Wall Street” di Oliver Stone e popolari come “Basic Instinct”, mi confida una nuova speranza: «Che le nuove generazioni sistemino questo mondo al collasso». Nel ritirare l’Excellence Achievement Award, più che a ripercorrere la sua carriera, ci ha tenuto a riflettere sulle storture di questo tempo e del suo Paese, attaccando frontalmente il governo di Trump e la sua xenofobia senza usare metafore e giri di parole. «Pensavo di essere nato nel momento peggiore, nel 1944, alla fine della seconda guerra mondiale, ma questo è un momento ancora peggiore, funestato dalle guerre. E il mio Paese purtroppo ha la più grande responsabilità del caos che scuote oggi il mondo».
Cosa può fare il cinema in questo complesso momento storico?
«È il momento giusto per fare sempre più film e investire su questo settore, anziché su quello militare. Non sono affatto felice nel vedere quanti soldi vengano allocati per le operazioni militari negli Stati Uniti, che tra l’altro insistono a chiedere agli altri Paesi di aumentare i loro bilanci militari. Non capisco come mai ancora ci mettiamo a combattere le guerre, lo trovo assurdo e ridicolo. Da americano mi sento imbarazzato, mi scuso con i miei amici e compagni del Canada e del Messico, con l’Unione Europea e con la Nato. Mi scuso con tutti, veramente».
Dovessimo rincontrare oggi il suo Gordon Gekko di “Wall Street”, spregiudicato e corrotto, dove lo troveremmo?
«Seduto su una poltrona, tanti leader politici sono come lui. O magari nella Silicon Valley. Di sicuro è un personaggio ancora attuale. Mi ha sempre sbalordito ricevere complimenti su di lui, quando mi dicevano “Grande, Gekko!”, io rispondevo: “Ma come, è il cattivo!”. Mi ha fatto riflettere su quanto riusciamo ad apprezzare i corrotti, Gekko era un vero seduttore e ha conquistato tutti, come tante persone che oggi ottengono il favore della gente e vengono credute malgrado dicano le peggiori menzogne».
Come vede cambiata l’America dagli anni di quel film (1987)?
«Era un Paese molto diverso, pieno di speranza e movimenti civili. C’erano i re dei soldi, ma c’erano possibilità per tutti gli altri».
Come commenta le recenti proteste a San Francisco, dopo le iniziative del governo Trump contro i migranti?
«L’immigrazione è una questione in ogni Paese, questo presidente l’ha trasformata in un dramma, come se tutti i migranti fossero assassini e stupratori, cosa che Trump ha ripetuto a tamburo battente ancora prima di essere eletto. Quando è diventato presidente è stato capace di sfruttare il suo “potere esecutivo”, per cui può prendere decisioni in autonomia, scavalcando il Congresso. La mia domanda è quando o come potremmo porre fine a questo potere esecutivo?».
Come si risponde?
«Senza ottimismo, Trump ha trasformato l’immigrazione nella benzina per il suo motore politico. Lo Stato della California, che è il quarto più grande Pil al mondo, è democratico, quindi per lui ha senso colpire lì. Nel 2030 lo spagnolo sarà la lingua più parlata in California, non c’è alcun motivo per chiamare la Guardia Nazionale o l’esercito degli Stati Uniti, né per andare nei quartieri di ispanici della middleclass, dove vivono persone che tra l’altro hanno un lavoro e sono nel Paese da 30 anni. È un approccio tragico, pesantissimo, esagerato. Ma per lui è solo l’ennesimo diversivo: “Ora penserete a quello che sta succedendo qui, così non penserete a quello che sta succedendo là”. Il governatore Newsom è probabilmente uno dei principali contendenti per la presidenza democratica nel 2028, si tratta di una mossa politica precisa».
Qual è stata la più grande delusione della sua vita?
«Queste ultime elezioni nel mio Paese. La più grande di tutte».
E la gioia più forte?
«Aver sposato Catherine Zeta Jones, che tra l’altro continua a chiamarmi senza sosta (prende il cellulare che squilla a più riprese, non risponde, si scusa, ndr)».
Sharon Stone, sua partner di scena “storica” in “Basic Instinct”, parla spesso di problema molto attuale a Hollywood: invecchiare sullo schermo è problematico anche per gli uomini, o si possono ottenere buoni ruoli anche superata una certa età?
«Per un uomo non è problematico come per una donna, ha ragione Sharon, come ha ragione anche la mia Catherine, ne abbiamo parlato. Allo stesso tempo, però, quando guardo i miei figli, entrambi decisi a fare gli attori, è mia figlia che al momento riceve più attenzioni, quindi mi sembra che le ragazze ricevano attenzione prima dei ragazzi e i ragazzi finiscano per avere successo un po’ più tardi».
Quando ha capito di poter avere successo?
«Grazie a “Wall Street”, un film che mi ha cambiato la vita».
Come?
«Ho vinto l’Oscar, mi sono sentito accettato e “visto” per la prima volta. Mio padre Kirk mi disse: “Se avessi saputo che avresti avuto così tanto successo sarei stato molto più gentile con te”. Amava scherzare, era un attore straordinario e io lo ricordo con orgoglio, sperando a mia volta di passare il testimone di questa nostra dinastia attoriale ai miei figli. Mi fa sorridere chi parla di nepotismo, tutti i genitori vorrebbero che i propri figli seguissero le loro orme, fossimo una famiglia di carpentieri sarebbe stato uguale. E ugualmente difficile, perché quando hai un padre che fa il lavoro che vuoi fare tu tutto lo sforzo sta nel costruirti una tua identità. Perché mentre tutti pensano che sei lì grazie al fatto che sei “figlio di”, tu devi lavorare sodo e dimostrare di avere la stoffa per farcela da solo».