Cultura
14 luglio, 2025La realtà invisibile dei “clickworkers” e i disastri ambientali. Gli esperimenti meta-narrativi e l’evoluzione della cultura visiva. Una mostra a Parigi fa il punto su arte e Ia
Ceci n’est pas une pomme». Così Magritte, nel 1964, intitolava il suo celebre tentativo di raffigurare una mela. Un’affermazione che già allora coglieva il complesso rapporto tra realtà e rappresentazione, tra parola e immagine. E oggi, cosa “vedrebbe” l’intelligenza artificiale?
La risposta arriva dal Jeu de Paume di Parigi. “Le monde selon l’Ia” (aperta fino al prossimo 21 settembre e curata da Antonio Somaini) esplora i legami tra intelligenza artificiale e creazione artistica. Un’esposizione collettiva di portata inedita sul piano concettuale con una scena internazionale di artisti che nell’ultimo decennio hanno indagato l’universo dell’Ia e messo alla prova fotografia, musica, letteratura, arte e cinema. Una ricerca appassionata e necessaria su come l’Ia stia cambiando la società e influenzando il nostro modo di percepire e vivere il mondo. L’ “hyper-objet Al” viene così vivisezionato al pari di un animale tecnologico: se ne definisce l’identità tracciando un volto e una storia e se ne individuano le capacità, le potenzialità. Ma anche i limiti e i possibili rischi.
Col diagramma “Calculating Empires: A Geneaology of Technology and Power Since 1500” (2023), Kate Crawford e Vladan Joler propongono una lettura diacronica della società strettamente legata all’evoluzione tecnologica di cui l’Ia non è altro che l’approdo odierno. Una riprova dell’innata tendenza dell’uomo a sistematizzare ed automatizzare la conoscenza, una prospettiva che ci accompagna lungo tutta la mostra.
L’intelligenza artificiale viene qui esplorata nelle sue due dimensioni. Quella analitica - in grado di rilevare, riconoscere, classificare per analizzare e prevedere (operazioni su cui si fondano i sistemi di visione artificiale e di riconoscimento facciale) e quella generativa - capace invece di modificare dati esistenti o di creare nuovi contenuti (immagini, audio e testi) sulla base dei dati forniti e dell’allenamento acquisito.
Una forma di “intelligenza collettiva” dove l’umano e il non-umano si fondono. L’intelligenza artificiale “vede” e “ignora” attraverso il suo sguardo algoritmico. Le sue lenti sono fornite dall’uomo e, come tali, arbitrarie. Sono modellate infatti dal contenuto e dalla struttura dei datasets forniti, dalle finalità con cui i sistemi visivi operano, dalla struttura neurale, dai modelli matematici scelti e dall’attività umana di “labeling” di immagini carica di approssimazioni e di bias culturali e valoriali, talvolta discriminatori (“Faces of ImageNet”, 2022 di Trevor Paglen). Tutti fattori con un fondamento epistemiologico dalla grande responsabilità agentiva vista l’ubiquità dell’Ia in ogni strato sociale.
E nella pratica artistica e cultura visiva? Oggi il patrimonio culturale se ne può avvalere. Le opere d’arte del passato riversano i loro elementi costitutivi e finemente scomposti in quello che viene definito “spazio latente”. Da quest’ultimo gli stessi elementi, a seconda degli algoritmi impostati, vengono poi attinti per poter restaurare, modificare le opere esistenti o addirittura crearne di nuove quasi a prolungare lo spirito artistico degli autori. Certamente una contraffazione, ma con la potenzialità di poter meglio cogliere il significato dell’opera e l’immaginario dell’artista. Una rivoluzione storiografica. A partire dalla metà dello scorso decennio, diversi artisti contemporanei si sono avvicinati all’Ia per impadronirsene. Chi esplora gli spazi latenti commercializzati dalle companies tecnologiche per aggirarne i limiti, gli stili predefiniti e sfruttarne le disfunzioni come fa Julien Prévieux in “Poem Poem Poem” (2024-25). E chi, come Holly Herndon e Mat Dryhurst, modifica gli spazi latenti già in essere o addirittura ne crea di nuovi aperti e collettivi.
Anche la letteratura, la musica e il cinema si mettono in gioco: dall’invenzione di nuovi alfabeti co-creati con l’Ia per ridurre la distanza tra l’uomo e la macchina (come in “Ars Autopoetica”, 2023 di Sasha Stiles) a tentativi metanarrativi fino alla musica con l’installazione interattiva di Christian Marclay in collaborazione con Snapchat (“The Organ”, 2018) per riflettere sulla corrispondenza tra suono e immagine. Le aspettative riposte nella traduzione di immagini e video in parole e viceversa rimangono in parte disattese ma lasciano spazio all’imprevedibilità e a un certo grado di potenziale poetico così come emerge in “Ekphrasis” (2025) del collettivo Estampa.
Le opere in mostra ci ricordano inoltre come l’Ia non sia solo una mera dimensione astratta e virtuale ma lascia tracce tangibili nella realtà con ripercussioni non solo sociali e giuridico-legali ma anche ambientali. Sì, perché l’Ia non è un algoritmo ma una filiera che, come ogni procedura digitale, ha inizio con lo sfruttamento delle materie prime e si conclude con l’abbandono di rifiuti elettronici con impatto sulla natura (serie “Metamorphism”, 2016 e “Buried Sunshines Burn”, 2023 di Julian Charrière). E al centro troviamo anche il mondo invisibile dei “clickworkers” – provenienti per lo più dalle aree sud del mondo – assunti per l’indicizzazione dei contenuti e costretti a lavorare in condizioni precarie come denunciato da Hito Steyerl e il collettivo Meta Office.
Una mostra, un itinerario in cui ci si sente in bilico tra “l’entusiasmo tecnofilo e l’apprensione tecnofoba”. Se ne esce arricchiti di conoscenze e stimolati nella riflessione.
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