Cultura
17 luglio, 2025Vendite polverizzate. Luoghi nuovi dove si radicano le comunità di lettori. Modelli in crisi, come le tradizionali presentazioni dei libri fiaccano un mestiere. Che resta decisivo, in un mercato da centomila titoli l’anno
Parlare con i librai, parlare con le libraie è un’esperienza che resta impressa. Ricomincio: parlare, in un paio di giorni, con oltre cento fra librai e libraie è un’esperienza intensa. Ma come? Fai lo scrittore! Che novità è? Appunto. Di solito il dialogo con il libraio è a monte o a valle di un evento, qualche volta è uno scambio frettoloso, benché amichevole; qualche volta è una cena confidenziale a fine presentazione, pizza e birra. Ma girare i tavoli della sala convegni di un grande albergo termale e parlare in poche ore con decine e decine di professionisti del mondo del libro non mi era mai capitato. È stato nella scorsa primavera ad Abano Terme a “Tribùk”, per gli incontri tra editori e librai che una volta l’anno consentono un confronto serrato, diretto tra chi produce e chi vende.
Da imbucato ho avuto il privilegio di raccogliere – anche solo di orecchiare – racconti, testimonianze, confessioni, sfoghi. Una solitudine affollata, verrebbe da dire: perché sì, chi traffica con i libri può sentirsi anche molto solo.
Il mercato, come si sa, non cresce; in altre parole, stagna. E i commercianti fanno i conti, letteralmente, con un primo semestre 2025 privo del megaseller che trascina. Consumi sempre più volubili, segmentati, polverizzati. Gli scaffali sono quelli – una questione banale: spazi – e la produzione di volumi non accenna a diminuire. «Abbiamo finito i banchi!» è un grido ironico che si leva a più riprese, petizione difensiva di fronte alla caterva di ormai quasi centomila novità annue. «Andrebbe ridisegnato il concetto di libreria», dice qualcuno: e di sicuro, rispetto a quarant’anni fa, il tempio non è più un tempio, è un luogo meno ostile elitario e compassato, c’è magari la caffetteria... Basta? No. Perché la verità, “catene” o no, è che ogni libreria «è un mondo a sé», come mi spiega appassionata una libraia. Convinta che non si tratti di modellizzare, ma di calare il concetto di libreria in quel preciso contesto, di adattarlo alla fisionomia socio-antropologica dell’area in cui si opera.
Non è semplice; non è impossibile. Forse è l’unica soluzione: perché il lettore, debole o forte, e perfino, soprattutto il non lettore va accolto, accompagnato. E bisogna dargli una ragione seria per non acquistare online. Per capire che se mette piede in uno spazio fisico, guadagna qualcosa. Un’esperienza, per l’appunto: l’eventuale piacere solitario del leggere entra in una zona d’interesse e di condivisione. Più semplicemente: di relazione.
L’espressione più felice al riguardo è quella al centro del saggio di Chiara Faggiolani, docente di Biblioteconomia alla Sapienza, “Libri insieme” (Laterza): «comunità della conoscenza».
Una libreria non è solo un negozio, è anche un negozio: certo le comunità della conoscenza si radicano anche altrove, sfuggono a diversi perimetri e parametri. Festival culturali, presìdi, associazioni. Ma il libraio e la libraia sono mediatori decisivi. Spesso lavorano su un orizzonte più largo di quello della “semplice” presentazione; inventano formule diverse, innescano la prima scintilla dello “sharing” che poi anima un circolo di lettura. Dove – fa notare Faggiolani – si discute di «un libro scelto da altri, imposto potremmo dire, che ha richiesto un importante atto di fiducia iniziale. Se a cambiarmi la vita è un libro che non avrei mai scelto per me, allora sì che è doppiamente un dono».
Fiducia è una parola chiave. Difficile, non necessariamente scontata. «Uno dei tratti più interessanti delle comunità della conoscenza». Una fiducia, insiste Faggiolani, «immotivata». Nella miriade di esempi che propone, colpisce il contagioso effetto di un’alleanza strategica fra sconosciuti. Le potenzialità enormi delle librerie indipendenti costituite come associazioni diventano lampanti. Anche solo per la capacità di sottrarsi al ricatto del marketing più aggressivo, della novità a tutti i costi. Il ripescaggio, l’usato, il classico sepolto. C’è una vita dei libri oltre il tempo sempre più vorticoso della massima esposizione. Quanto? Un mese? Due? Splende l’esperienza di una minuscola bellissima libreria in Garfagnana, fondata da Alba Donati, “Sopra la penna”: c’è chi ci arriva in pellegrinaggio macinando chilometri perfino in bicicletta. O ancora: l’esperimento del furgone che porta le storie dove le librerie hanno chiuso. Arturo Bernava e Maria Emery viaggiano per raggiungere spazi dimenticati, sono “trasportatori di storie”. Il libraio resta un mediatore decisivo, diventa spesso complice/terapeuta del lettore in crisi da sovraccarico. Proprio nei circoli di lettura capita di raccogliere gli sfoghi di chi non riesce a stare dietro ai nuovi titoli e matura così una strana, talvolta inibente «angoscia della quantità».
Chi mi aiuta a scegliere, a selezionare? A capire quale libro faccia per me. Le recensioni, grosso modo da tre lustri, hanno sempre meno incidenza. I booktoker intercettano soprattutto lettori e lettori potenziali under 30 e sono spesso orientati a promuovere generi codificati. C’è una prateria di possibilità, di occasioni, di stimoli, in cui smarrirsi o smarrire il desiderio è un attimo. Le vecchie presentazioni si prestano ancora? Generano poco, a dire il vero; ed è questo il tema di un breve ma acceso dibattito che ha catturato l’attenzione della bolla editoriale social nelle scorse settimane. Scrittori depressi, scrittori immalinconiti da un pubblico di sedie vuote. Roberto Cotroneo e Grazia Verasani hanno lanciato il sasso nello stagno: serve ancora fare i globetrotter della carta stampata? Ha davvero senso?
A rispondergli sono stati in larga parte anche i librai e i curatori di rassegne. C’è caso e caso, c’è risultato e risultato. Christian Raimo e i Wu Ming richiamano la necessità di una prospettiva politica. Anche presentare un libro è una forma di impegno civile. «Presentare è ciò che più fa vivere un libro, e nei casi migliori lo trasforma proprio in un utensile tipo coltellino svizzero, a disposizione di chi vive i territori», sostengono i Wu Ming. D’altra parte, è impossibile non tenere a mente, al netto delle idiosincrasie e/o frustrazioni autoriali, la geografia svantaggiata in cui le occasioni culturali (e le librerie e le biblioteche) sono rasoterra.
Lo scrittore che raggiunge un posto in cui di solito accade poco o niente, almeno su quel fronte, dovrebbe effettivamente giudicarsi araldo di qualcosa di più ampio del proprio libro in promozione. Nessuno glielo impone, per carità. Ma se prova a non fissarsi troppo sulle presentazioni più assurde o mal riuscite, se non si fa scoraggiare dalla fatica di un neverending tour, può ancora accadergli qualcosa di sorprendente. In fondo non lo nega nemmeno la scrittrice Rosa Matteucci, che pure – in un gustoso articolo diario pubblicato online da “Lucy” – enumera le situazioni meno confortanti del suo esercizio di auto-promoter. «Ma se la causa prima del mio solingo avvento in sperdute località italiane è soltanto per il piacere di chi mi invita e pretende che io racconti ovvero riassuma quel che ho scritto, le stente tramucce mie, a un pubblico che nella stragrande maggioranza ignora persino il mio nome se non lo storpia, ecco che l’intrapresa di promozione ambulante trascende tosto nell’incubo...». Con qualche imprevisto positivo: «Se poi le genti accorse o precettate mi conoscono e, addirittura, hanno letto i miei scartafacci», la soddisfazione è massima.
In una vecchia raccolta di racconti di Jonathan Lethem un “Re delle Frasi” messo alle strette dai due librai-fan, sbotta di colpo: «Permettetemi di essere chiaro. Non ho nulla per voi». Mette così in crisi non solo i suoi adulatori, ma la stessa convinzione che uno scrittore possa aggiungere davvero qualcosa di utile a ciò che ha messo su carta. «“Abbiamo fatto tutta questa strada” insistono i librai. Lui scrollò le spalle. “Quand’è il prossimo treno per tornare indietro?”».
Un po’ estremista, benché comprensibilmente a disagio nell’epoca che pretende una iper presenza. Si potrebbe tuttavia considerare l’eventuale sparizione dello scrittore dagli eventi che lo riguardano un’interessante variazione, la rottura di uno schema. Sono proprio i più partecipati circoli di lettura la dimostrazione piena dell’autosufficienza, al netto del corpo degli autori, della discussione intorno a un libro. Nell’ultima edizione del festival SalernoLetteratura, ho azzardato un format insolito: i lettori sul palco, gli scrittori in platea. Un entusiasmo inaspettato: gente che avrebbe chiesto l’autografo, per una volta, a chi legge – e si limita a leggere – e non a chi scrive. «Sa qual è stata la sorpresa?» mi ha domandato una spettatrice a fine incontro. No, ho fatto io. E lei: «Che i lettori si sono dimostrati più eloquenti e interessanti di parecchi scrittori».
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