Cultura
18 luglio, 2025Un’antologia di successi. E un Manuel Agnelli travolgente. Per una tournée che riscrive la storia
C’è qualcosa di struggente nel concerto degli Afterhours riuniti da Manuel Agnelli per celebrare i vent’anni di “Ballate per piccole iene”. Il tour ha già toccato varie città, a Roma con due concerti travolgenti alla Cavea dell’Auditorium, e continuerà a girare l’Italia fino a metà agosto. Andate a vederlo, non perdetevelo. Uscirete carichi e appagati.
Nella furia della musica della band c’è qualcosa di selvaggio, quasi ancestrale, che ci ricorda una delle modalità del rock che si stanno perdendo nell’oceano di mediocrità che è la scena musicale contemporanea. Il concerto, che nella prima parte ripercorre fedelmente il disco e nella seconda si allarga a tutti i pezzi principali della storia del gruppo, è sporco, magnifico, potente, ha l’apparenza e la sostanza di un pezzo di vita vera, ci ricorda che la musica è rito collettivo, e soprattutto che il rock nei suoi momenti migliori era anche un rito liberatorio.
A partire dall’idea di rifare il disco per intero, ricordando che, almeno fino a un certo punto della storia, un disco aveva senso in quanto disco con un percorso, un incipit e un finale: diciamo pure come un’opera, se oggi un pensiero del genere non risultasse eretico. E poi il seguito con tutti i pezzi che il pubblico aspettava: “Male di miele”, “Bye bye Bombay”, “Quello che non c’è”, “Lasciami leccare l’adrenalina”, “Dea”, “Non si esce vivi dagli anni Ottanta”, “Non è per sempre”, “Vorrei una pelle splendida”, in un crescendo di passione collettiva, con tanto di “pogo”, spinte, e mani alzate. Sotto il palco c’era il popolo rock cresciuto intorno alla band, gente affamata di pulsioni reali, di qualcosa di imperfetto ma vero, bruciante.
Tra le due parti del concerto Manuel ha pensato di proporre una inattesa versione de “La canzone di Marinella”, un siparietto rispetto al resto del concerto, ma è stata l’occasione per dare una lezione di ciò che dovrebbe essere una cover, ovvero una non gratuita reinvenzione di un pezzo. Rispettando fedelmente il testo e la sua drammatica potenza, il pezzo è stato cadenzato, con un rock basso e lento, cupo, ma alla fine a colpire di più è stato proprio il crescendo di trasporto fisico, urlato, la bellezza del ritmo, le chitarre distorte e luminose e la voce che gridava la sua voglia di poesia feroce e libera.
Al fondo, finito il concerto, rimaneva addosso una sfumatura di malinconia dovuta a una precisa riflessione. Quello che abbiamo visto è stato un pezzo di selvaggia cultura rock. Ma è qualcosa che oggi non esiste più, non ha eredi, non ha un possibile prolungamento. Come abbiamo fatto a uccidere questo pezzo così importante della nostra cultura?
Up & Down
Per fortuna si parla di bravi musicisti che sono una garanzia di qualità. Sorprende infatti l’idea di Branford Marsalis di incidere un disco, “Belonging”, che è un rifacimento dell’omonimo disco di Keith Jarrett del 1974, secondo una pratica più tipica del pop e del tutto insolita nel mondo del jazz.
Esiste e circola liberamente sulle piattaforme una band creata dall’Intelligenza Artificiale. Si chiamano Velvet Sundown, sono “un progetto di musica sintetica con direzione creativa umana” e potrebbero essere l’avamposto di un’ondata di paccottiglia finta che ci sommergerà: come se già non fossimo pieni di inutili musiche.
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