Cultura
25 luglio, 2025Il passato da avvocato, l’esordio come scrittore, la genesi del suo personaggio. Il nuovo libro del padre del legal-thriller: “Amo la musica. Suono in una rock band con Stephen King”
Scott Turow è una delle voci più autorevoli del legal-thriller contemporaneo. Anzi, per molti ne è l’inventore. Nato a Chicago, prima di dedicarsi del tutto alla scrittura è stato avvocato, lavorando per l’ufficio del procuratore federale e difendendo spesso chi rischiava la pena di morte. Ha esordito alla narrativa nel 1987 con “Presunto innocente” (Mondadori, traduzione di Roberta Rambelli), subito un bestseller e diventato un film di successo con Harrison Ford e nel 2024 una serie tv con Jake Gyllenhaal. Da allora Turow ha ambientato quasi tutti i suoi romanzi, quindici in tutto, nella Kindle County, fittizia contea degli Stati Uniti che riflette le complessità e le contraddizioni del Midwest. Con trenta milioni di copie vendute, i suoi romanzi sono letti in tutto il mondo e continuano a raccontare le responsabilità personali e collettive. Turow torna in libreria con “Presunto colpevole” (Mondadori, tradotto da Sara Crimi e Laura Tasso) riportando sulla pagina il suo personaggio più famoso, lo stesso dell’esordio: Rusty Sabich. In pensione già da tempo, Rusty è chiamato a difendere il figlio adottivo della sua compagna, accusato dell’omicidio della propria fidanzata.
Iniziamo dal principio: “Presunto innocente”.
«Lo scrissi sul treno che prendevo tutti i giorni quando lavoravo da pendolare. Avevo un posto nell’ufficio del procuratore di Chicago, ma non avevo ancora rinunciato al sogno di fare lo scrittore. Così, ogni mattina, scrivevo. Mezz’ora all’andata e mezz’ora al ritorno».
Le piaceva?
«Era piuttosto scomodo, scrivevo su un grosso quaderno ad anelli di Fragolina Dolcecuore, lo avevo rubato a mia figlia. E il tempo era poco, per cui dovevo fare in fretta. Ma sì, amavo scrivere su quel treno. Tra l’altro, utilizzavo un metodo che non ho mai più usato: ogni mattina scrivevo un episodio diverso rispetto a quello del giorno precedente. Non seguivo l’ordine del libro, la cronologia degli eventi, ma decidevo cosa scrivere in base al mio umore, a quello mi era successo quel giorno. Se ero nervoso, frustrato, arrabbiato per qualcosa che mi era capitato, a lavoro o fuori, scaricavo la tensione sulla pagina e mi dedicavo a scene di azione, cariche di suspense. Se, invece, ero felice scrivevo altro».
Ricorda la scintilla da cui nacque Rusty?
«Certo. Ogni tanto ancora lo vedo pure. Per scrivere Rusty mi ispirai a un uomo che conoscevo, e conosco. Più che lui, però, dovrei dire al concetto che questa persona incarnava. Ero all’ultimo anno di giurisprudenza e lavoravo per l’ufficio del procuratore di Boston. Lì incontrai Tim O’Neill. Irlandese, Tim era un grandissimo avvocato, ma la cosa che mi affascinava di lui era che fosse pure un poeta. Ogni tanto in un pub di Cambridge leggeva le sue poesie, ero sempre ammirato. Pensai: e se scrivessi un thriller con una voce più poetica, lirica di quella che si usa di solito? Da lì venne fuori Rusty».
Ancora su quel periodo. Lavorò a casi difficili, e difese pure chi rischiava la pena di morte: Alejandro Hernandez, ad esempio, nel braccio della morte per undici anni per un crimine che non aveva commesso. Lei ne ottenne la liberazione. “La mia ossessione per l’abuso di potere deriva dall’essere figlio di David Turow”, affermò in un’intervista.
«Mio padre era una persona cattiva, lo era anche con me, mia madre e mia sorella. Per me e mia sorella fu complicato essere i suoi figli. Eravamo piccoli e non sapevamo come gestirlo, i bambini non hanno gli strumenti adatti per una cosa del genere. Perse la madre quando aveva circa tre anni, e credo non si sia mai ripreso da quel lutto».
Cosa intende con persona cattiva?
«Era sadico. Dal potere che poteva esercitare su di noi traeva una gratificazione di cui non riusciva a fare a meno. Una volta, dovevo avere cinque anni, rimasi chiuso in bagno. Lui era l’unico adulto in casa. E tutto quello che ero capace di pensare era: “Non mi aprirà, non mi farà uscire, mi terrà per sempre chiuso qui”. Tanta era la paura di lui. Spesso, negli anni, mi sono ritrovato a pensare che la porte l’avesse chiusa lui. Per divertirsi».
Cos’altro?
«Era un grande bugiardo. Mentiva in continuazione. Anni fa, prima di scrivere “Eroi normali”, trovai delle lettere che aveva scritto a mia madre, tutte piene di bugie davvero molto articolate. Tra l’altro mi lasci dire che era uno scrittore bravissimo. Non me l’aspettavo, non mi sembrava avesse l’indole adatta per la scrittura. Eppure era magnifico».
Cosa c’era in quelle lettere?
«In una scriveva a mia madre d’essersi trovato a Omaha Beach il D-Day, quando gli alleati sbarcarono in Normandia. Falso. Feci delle ricerche, era da tutt’altra parte: in Texas per l’addestramento. Ho sempre creduto che sentisse l’esigenza di glorificarsi, farsi grande agli occhi degli altri, per questo mentiva tanto spesso. Eppure le storie che aveva inventato in quelle lettere erano umilianti. Scrisse che a Omaha Beach era caduto in una fossa lasciata da un’esplosione, che il suo intero plotone lo aveva superato finché il sergente non aveva realizzato che lui non c’era, ed erano stati costretti a tornare indietro e a tirarlo fuori da lì».
Storie che non lo glorificavano, dunque.
«No, specie considerato che fece qualcosa di molto più coraggioso di qualsiasi cosa io abbia mai fatto nella mia vita. Si arruolò volontario per il fronte come sergente sul campo, quindi in combattimento, sulla linea nemica».
Allora in guerra ci andò.
«Sì, fu pure catturato dai tedeschi, era di famiglia ebrea. Mio padre era medico, e non si sottrasse ai suoi doveri: curò le ferite dei soldati tedeschi, mentre era prigioniero».
Mettiamo da parte i suoi genitori. Che bambino era lei?
«Sognavo tanto a occhi aperti. Non amavo andare a scuola, ero indisciplinato, mi cacciavo spesso nei guai. In classe non riuscivo a star zitto, per cui gli insegnanti mi rimproveravano di continuo. Avevo un’amica seduta al banco di fianco al mio con cui chiacchieravo sempre ma, alla fine, a essere sgridato ero sempre e solo io. Pure quando la colpa era sua lei la faceva franca».
A casa?
«A volte facevo finta di star male per non andare a scuola, mia madre sapeva che fingevo ma mi faceva ugualmente rimanere a casa. A condizione però che in quelle ore leggessi. Una volta mi diede “Il conte di Montecristo”, anche se non era un libro per la mia età, e me ne innamorai. Iniziai a leggere così».
A proposito. Altre passioni?
«Molte. La musica, tra le altre. Suono anche in una rock band di scrittori. C’è pure Stephen King, ci divertiamo molto».
Parliamo del nuovo libro, ora. “Presunto colpevole”. Ha deciso di scrivere ancora di Rusty, il personaggio con cui ha esordito quarant’anni fa. Perché?
«Rusty era già tornato, dopo “Presunto innocente”, in “Innocente” e quel romanzo finiva con lui schiacciato a terra. Era appena stato scarcerato, ma aveva perso tutto: era il momento più basso della sua vita. Non mi piaceva lasciarlo così».
Rusty vive una vecchiaia serena, ma poi muore Mae. Aaron, il fidanzato, figlio di Bea, la compagna di Rusty, è accusato dell’omicidio. Aaron è un ragazzo nero nell’America bianca.
«Quando mi venne in mente l’idea di scrivere un sospettato nero e lo dissi al mio editor, al telefono, lui rimase in silenzio per qualche secondo. È materiale radioattivo nel mondo dell’editoria americana. Uno scrittore bianco che scrive personaggi neri».
Aaron, tra l’altro, non vive in una grande città. Vive in una parte rurale, una zona che, di norma, potrebbe essere considerata meno progressista.
«Non vuol dire granché. Anni fa divenni amico con un giovane afroamericano, un avvocato che correva per il Senato degli Stati Uniti. Capitava che venisse a casa nostra. Si chiama Barack Obama. In quel periodo gli chiesi come avrebbe fatto a farsi piacere dalle comunità contadine di bianchi, parte consistente della zona in cui ci trovavamo, non diversa dal posto che racconto nel libro. Mi disse che con loro se la cavava bene, quelle persone le capisco e mi capiscono davvero. Non conta sempre il colore della pelle, a volte ci sono cose più profonde ad accomunarci».
Tornando a Rusty. Crede sia pronto a lasciarlo andare, dopo tanti anni?
«La nostra amicizia è stata lunga e solida, ci siamo dati molto, ma è arrivato il momento di dirci addio, sì».
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