Cultura
28 luglio, 2025I big della musica, a partire da Bob Dylan e Joni Mitchell. Le celebrity di Hollywood Brad Pitt e James Franco. E in Italia Paolo Conte e Franco Battiato. Sempre più spesso musicisti e attori si reinventano. Con esiti molto controversi
«I was mentally ill before it was cool». La frase, ben visibile, campeggia accanto al disegno di un uomo che fa la verticale, una delle posizioni yoga più instagrammabili. Significa «ero malato di mente prima che diventasse cool», e ironizza in maniera provocatoria, come le altre opere di Robbie Williams, su fatti seri e intimi: il disagio mentale, la depressione, il caos interiore. I ricoveri e le riabilitazioni dopo l’abisso in cui è sprofondato più volte. È abituato a riempire gli stadi la popstar britannica, un tempo leader dei Take That, prima di una lunga carriera di successo, ma sono molto frequentate anche le austere sale del Moco Museum di Amsterdam, che ospitano la sua prima mostra personale, “Pride and Self-Prejudice” (fino al 31 dicembre). Quasi vent’anni fa Williams scoprì l’arte come terapia: il suo amico e artista David Hockney gli regalò un iPad affinché esplorasse il disegno digitale. In maniera inaspettata, il regalo divenne un canale di espressione del suo mondo interiore.
Williams si muove in una scena affollata. Stelle del cinema, popstar, registi, scrittrici e scrittori si scoprono artisti, coltivando la propria passione: dipingono, disegnano, scolpiscono, espongono in gallerie e musei, le loro creazioni vengono battute all’asta da Sotheby’s e Christie’s. Fanno parte del sistema. È questa la novità rispetto al passato, il fenomeno sembra aver raggiunto la massa critica. I loro lavori convincono i fan ma non i critici, che in molti casi accusano di dilettantismo le celebrity folgorate sulla via dell’arte. Pronte a sfruttare la propria fama per coltivare la loro carriera parallela e trarne benefici anche economici.
Per poco più di mille euro, un prezzo popolare, i seguaci di Ed Sheeran possono portarsi a casa un quadro del loro idolo, che in queste settimane espone le sue opere, realizzate con la tecnica del “dripping” e smaccatamente ispirate ai lavori di Jackson Pollock, nella mostra “Cosmic Carpark Paintings” (fino al 1 agosto), nella Heni Gallery a Londra. L’autore della hit “Shape of you” ha cominciato a dipingere nel 2019, poi la sua prima collezione ha preso forma in un parcheggio in disuso nella capitale britannica un anno fa, durante il suo tour. Ha parlato delle sue opere al suo amico Damien Hirst, superstar dell’arte contemporanea, che lo ha incoraggiato a organizzare una mostra. Puntualmente stroncata dal critico del Guardian, Jonathan Jones: «Sheeran ha ragione ad amare Pollock. Ma è arrogante e stupido pensare di poter riprodurre nel tempo libero il suo genio. È qui che gli artisti famosi sbagliano: pensano che l'arte sia divertente, invece è sofferenza e follia», ha scritto, poi ha aggiunto: «Uno spruzzo di colore Sheeran può imitare uno spruzzo di Pollock, ma non c'è sentimento, non c'è verità. Pollock ha messo il suo io interiore su tela, trascinando chi guarda in un magma di sofferenza mentale e trionfo».
Non è la prima volta che le star vengono travolte dalla passione per la pittura. Tra i grandi musicisti vengono in mente Bob Dylan, Joan Baez, Joni Mitchell, Leonard Cohen. E ancora, la cantante islandese Björk, l’attore britannico Anthony Hopkins, il regista statunitense David Lynch. In tempi recenti la passione per l’arte ha contagiato anche le star di Hollywood: Adrien Brody ha esposto a New York, James Franco a Zurigo, perfino Brad Pitt si è cimentato con le sue sculture in una mostra a Tampere, in Finlandia.
«È un fenomeno variegato. Riguarda figure molto diverse tra loro, per cui la pittura è in larga parte un passatempo. Una sorta di divertissement che rivela un innamoramento superficiale», sentenzia Vincenzo Trione, acuto osservatore, professore ordinario di Storia dell’arte contemporanea allo Iulm di Milano e direttore della rivista Zona critica. Trione attribuisce l’origine di questo anelito creativo a un motivo preciso. «È come se cercassero spazi di libertà rispetto al loro mercato, fuori dalle costrizioni», aggiunge: «L’industria discografica, ad esempio, è regolata da norme rigidissime. Quando dipingi, molto di più di quando scrivi, sei veramente libero». Secondo l’esperto, autore del saggio “Prologo celeste. Nell’atelier di Anselm Kiefer” (Einaudi), si tratta di una pratica che i big della musica e del cinema coltivano in maniera segreta, riservata. Ogni tanto tirano fuori dei materiali sapendo che gli è consentito tutto. «Giocano un altro campionato, godono del vantaggio di non tener conto dei giudizi critici né delle imposizioni del mercato. Talvolta è un mestiere che coltivano con rigore e professionalità, ma parliamo di casi rarissimi. Molti di loro hanno profonde ingenuità tecniche».
Anche in Italia proliferano i cantautori con il pallino dell’arte. Fin da tempi non sospetti dipinge Edoardo Bennato, e la scorsa primavera Luca Carboni ha celebrato i suoi primi quarant’anni di attività con la mostra “Rio Ari O” (a cura di Luca Beatrice), al Museo della Musica di Bologna. Una cinquantina di opere. «Nella pittura mi ispirano le donne, i colori piatti delle bandiere, i cartelli stradali, i portici e le chiese. Nella produzione di solito mi piace mescolare la tempera, i colori acrilici, le bombolette spray per la pittura di strada», ha detto il cantautore.
Inoltre Trione rievoca il suo incontro con Franco Battiato, musicista geniale ed eclettico, scomparso quattro anni fa. È nota la sua passione per la pittura: dipingeva tele e tavole dorate a soggetto figurativo, ispirate all’arte antica e influenzate in parte dalla cultura sufi. «Dieci anni fa mi trovai con lui alla presentazione di una sua mostra», continua Trione: «Gli chiesi come si era accostato alla pittura. Lui rispose: “Non mi considero un pittore ma un uomo che dipinge. Poi aggiunse: “Nella pittura vedo tutti i miei difetti, cerco solo di migliorare. Mi sono dato un metodo talmente rigoroso che alla fine ho imparato a dipingere, senza essere un pittore”. Come se uno dicesse: “Sono uno che scrive, non uno scrittore”».
E ancora, Paolo Conte. Tempo fa la Galleria degli Uffizi, a Firenze, ha ospitato la retrospettiva “Nostalgia di un golf, un dolcissimo golf di lana blu”: una selezione di 69 disegni, tra i quali inediti e mai esposti fino ad allora, realizzati dal maestro nello scorso mezzo secolo. «Trovo l’idea disastrosa: una delle istituzioni più importanti al mondo, che ospita le opere di Sandro Botticelli, si apre a Paolo Conte solo perché è Paolo Conte, senza alcuna legittimità né critica né storiografica», ragiona il professor Trione: «Si tratta di un’operazione estemporanea. Cosa diversa è Björk che realizza una grande videoinstallazione per la sua mostra al MoMa (nel 2015, ndr), oppure Michelangelo Antonioni con i suoi quadri di ottimo livello iscritti nel suo percorso. Se li metti assieme al suo film “Deserto rosso” capisci la sua poetica».
Il docente chiama in causa le istituzioni culturali e i curatori delle mostre, responsabili delle scelte. «I musei rischiano di diventare personaggi in cerca d'autore, perdendo ogni aura», riflette: «Cercano di intercettare ciò che è fuori dal mondo dell'arte, talvolta in maniera opportuna, come nel caso della moda, del design, del cinema. In altri casi incappano in inciampi furbi. A parte qualche selfie, infatti, nessuno si metterebbe in viaggio per vedere la mostra di Robbie Williams. Un museo non è né lo stadio di San Siro né l’Olimpico. E neanche il Festival del cinema di Venezia. Deve essere sempre un luogo di selezione».
Nel caso di Bob Dylan, tuttavia, la ricerca nel campo dell’arte visiva non è l’amore di una stagione né la trovata furba per acchiappare consensi. Il menestrello di Duluth le storie le sa raccontare, eccome. Da sempre. Attraverso la musica e la parola scritta, come dimostra il Nobel per la Letteratura. E anche attraverso i suoi quadri. «L’idea non era solo quella di osservare la condizione umana, ma di buttarmici con grande urgenza», disse una volta. Si è appena conclusa a Londra la mostra “Point Blank” (alla Halcyon Gallery di New Bond Street): ritratti, nature morte, paesaggi amanti sui pattini a rotelle, un ponte sospeso, un rotolo di nastro adesivo, una cantante di karaoke. Quasi 100 disegni originariamente realizzati tra il 2021 e il 2022 durante il suo tour “Rough and Rowdy Ways”, vividi riflessi di persone, luoghi e momenti quotidiani. A novembre le opere confluiranno in un libro, con lo stesso titolo della retrospettiva, edito da Simon & Schuster. Trione mette in guardia il pubblico e invita a giudicare le mostre di volta in volta. «In molti casi esiste una complicità da parte della critica e dei curatori, che tendono ad avallare operazioni discutibili. Se invece si tratta di leggere l’esperienza di Dylan pittore o Battiato pittore nel contesto di una personalità molto più complessa può avere senso», sintetizza: «Se invece semplicemente si presentano queste reliquie mediamente kitsch o mediamente infelici e malfatte, beh, in quel caso mi sembrano operazioni molto fragili».
Anche nella migliore delle ipotesi, per comprendere la spinta delle star a diventare artisti visivi occorre pensare fuori dagli schemi, allargare lo sguardo. E soprattutto voltarsi indietro. «In un certo senso, oggi assistiamo al compimento della grande idea delle avanguardie del Novecento, che avevano spinto molti artisti a uscire fuori dagli ambiti tradizionali di pittura, scultura o letteratura, per confrontarsi con la musica, la radio, il teatro». Il professore porta l’esempio di Fortunato Depero (1892-1960), l’artista d’avanguardia che partì dalla pittura per misurarsi con pubblicità, grafica, design, spettacolo. E individua similitudini con il nostro tempo. «Credo che quella attuale sia una involontaria ripresa di quella grande tradizione. Uscire dalla propria zona di comfort e andare altrove», conclude Trione, che invita a frenare gli entusiasmi: «Spesso le intenzioni sono positive ma l’esito è imbarazzante nella maggior parte dei casi. Sono tutti in larga parte pittori della domenica».
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