Cultura
30 luglio, 2025L’exploit a 26 anni. Seguito da una carriera proteiforme. Che ora scopre l’horror. Con un film fatto di alti e bassi con qualche guizzo geniale
Facciamo un test. Andate all’uscita di un cinema frequentato da appassionati, oppure scegliete i più attenti tra i vostri amici, e buttate lì la domanda: chi ha diretto “Traffic”, “Erin Brockovich”, “Ocean Eleven”, “Dietro i candelabri”, “Magic Mike”, “Contagion”, “Full Frontal”, più due film su Che Guevara? Pochi risponderanno senza esitazioni: Steven Soderbergh. Eppure è proprio così. L’ex enfant prodige di “Sesso, bugie e videotape”, con cui nel 1989 vinse la Palma d’oro a Cannes a soli 26 anni, è forse il cineasta più proteiforme e inclassificabile del cinema contemporaneo. Uno sperimentatore a getto continuo che anziché imporre la propria “firma” attraversa e scompiglia generi, sguardi, tecniche, modi di produzione, rimodulando ogni volta tutto a partire da se stesso. La forza di una scelta simile coincide con la capacità di affrontare ogni volta un sistema di regole diverso. Il limite, evidente in alcuni dei suoi innumerevoli lavori, sta nel privilegiare l'impresa (la macchina del racconto) trascurando il risultato, ovvero i sentimenti suscitati dal film. Tanto in noi quanto nei personaggi.
Scritto – come l’ultimo Soderbergh, il recentissimo “Black Bag” - da David Koepp, lo sceneggiatore di film non meno diversi (“La morte ti fa bella”, “Carlito’s Way”, “Panic Room”, i primi “Mission Impossible” e “Spider-Man”...), “Presence” è una “ghost story” che declina in chiave quasi horror lo sgretolarsi della famiglia contemporanea sotto l’urto di varie forze, non ultimi i social, l’ansia di integrazione, il successo obbligatorio. Sono loro in fondo i “fantasmi” che vagano nella vasta casa appena acquistata da una famiglia non proprio solidissima, padre caucasico, madre asiatica (Lucy Liu), figlio campione sportivo, figlia traumatizzata dalla morte misteriosa di una coetanea.
Anche se in “Presence” tutto questo si riassume nelle continue, svolazzanti, virtuosistiche “soggettive” che ci portano in giro attraverso la casa e accanto ai suoi occupanti. In un crescendo di angosce che illumina i vari personaggi, com’è giusto, più che la misteriosa “presenza”. Come tenta di spiegare una figura non così secondaria che porta in questo film un po’ troppo “di testa” una nota in certo modo autobiografica (la madre di Soderbergh era una parapsicologa...). Riportandoci in fondo a quanto dichiarò il regista dopo l’exploit del suo precocissimo esordio: «D’ora in poi la mia carriera non potrà che declinare». Dopo tanti generi forse dovrebbe tornare, stavolta in modo frontale, al più inflazionato e difficile. L’autobiografia.
Il film
Presence
di Steven Soderbergh, Usa, 85’
Azione! E stop
Il cinema salvato dai furgoni. In Abruzzo c’è “Uppennino CineCamper”. In Puglia, Calabria, Sicilia e Lazio, “Schermi Cinema Multipiazza”. L’idea è più o meno la stessa. Un furgone attrezzato porta in paesi e quartieri deprivati proiezioni, incontri, passioni. Ma è possibile che in buona parte d’Italia il cinema risorga solo d'estate, all'aperto?
Ci mancava Timothée Chalamet. Sempre sulla cresta dell’onda giusta, mai un secondo dalla parte sbagliata (celebre il suo ripudio di Woody Allen), il giovane divo franco-americano sarà fra i testimonial della campagna di una app che consente di investire dallo smartphone in azioni e, attenzione, in criptovalute. Complimenti vivissimi.
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