Strane figure di ossa, alluminio, pezzi di legno. Piene di un’angoscia che ci è familiare. I lavori di Cenci nel nuovo spazio di Palazzo Strozzi

Quello scarto mi somiglia

Figura senza forma, ombra senza colore, forza paralizzata, gesto privo di moto: con queste parole T.S. Eliot descrive un mondo di uomini vuoti, un mondo che infatti finisce non con uno schianto, ma con un lamento. E il titolo di questa poesia, “The hollow men”, appunto, è quello che Giulia Cenci (Cortona, 1988) ha scelto di dare al suo progetto espositivo in corso a Palazzo Strozzi, in un nuovo spazio che la fondazione che ha portato a Firenze le grandi mostre di arte contemporanea (ora è il turno di Tracey Emin al piano nobile) ha deciso di creare per gli artisti emergenti. Non so se chiamerei Cenci “emergente”, dato che ha già esposto alla Biennale di Venezia, alla High Line di New York, al MUDAM di Lussemburgo, al MAXXI di Roma, al Centro Pecci di Prato, e che da quest’anno è rappresentata da Massimo De Carlo, forse il più importante gallerista italiano a livello internazionale, ma sicuramente è una delle nuove voci più dirompenti. Da sempre lavora con gli scarti, che siano trovati o immaginati, perché le interessano le cose a margine, gli scheletri della natura e della società industriale trattati come rifiuti, ma che in realtà sono quelli che restano una volta scomparsa la parte su cui tutti ci concentriamo, quella organica e produttiva. Anche se per Cenci non c’è alcune differenza tra natura e artificio, perché anche le cose prodotte dagli esseri umani sono figlie di un processo naturale e creativo. A Palazzo Strozzi vediamo una pattuglia di strane figure in alluminio, assemblate usando fusioni ottenute da ossa di vacca e umane, scarti di vigneti, legni e chissà che altro. Ricordano un po’ i Vacui, quei mostri che (quasi) nessuno poteva vedere in “Miss Peregrine” di Tim Burton. Sono il frutto di un humus che ha mischiato tutto, offrendo nuove possibilità. Hanno sembianze umane, ma la testa di un lupo, animale tanto favolistico quanto parte reale dei nostri boschi. Questi strani esseri osservano le proprie mani, incapaci di guardarsi intorno, di rendersi conto del mondo. Siamo noi, ormai indifferenti prodotti di un mix pauroso e sensuale tra tecnologia e natura?



 

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