Cultura
8 luglio, 2025La realtà inquietante indagata dal film "Happy Holidays", premiato a Venezia
Manca solo la guerra. Per il resto, se non avete mai messo piede in Israele ma volete capire come funzionano le cose laggiù, provate a vedere l'inquietante “Happy Holidays” del 50enne Scandar Copti, che nel 2009 sfiorò l'Oscar con “Ajami”. E qui risponde per esteso alle nostre domande rivelando dimensioni del vivere quotidiano che il cinema proveniente da quella parte del mondo aveva ancora raccontato.
Palestinese di Jaffa ma cittadino israeliano (oggi vive nel Qatar), di famiglia cristiana e non islamica, Copti è infatti uno di quei registi-chirurghi che lavorano nel profondo restando apparentemente in superficie. E senza mai alzare la voce.
Niente scenari grandiosi o fatti eclatanti dunque. In questo suo secondo film, premio per la miglior sceneggiatura a Venezia, conflitti e condizionamenti - anche mostruosi - affiorano dalla vita quotidiana. Resi da non professionisti che recitano senza aver letto il copione per intero, ma donano ai personaggi un'adesione e un'innocenza rivelatrici. Anche perché “Happy Holidays” è un puzzle, i rapporti fra le tessere del mosaico si illuminano poco alla volta. Ed ecco la gravidanza di una coppia mista, ecco manovre di ogni tipo (e da ogni lato) per sabotarla, ecco madri pronte a tutto per assicurare alla secondogenita nozze sfarzose come vuole la legge dei Padri (qui il patriarcato lo portano avanti le signore), o per evitare che la figlia sfugga al servizio militare. Mentre i bambini imparano fin dalle elementari ad amare Mosé e anche Bibi, cioè Netanyahu.
Cominciamo da qui: la scena in cui la palestinese Fifi gestisce senza batter ciglio bambini indottrinati e militarizzati è due volte scioccante.
“Tutto è tragicamente accurato. Gli israeliani vengono introdotti al linguaggio e ai simboli militari spesso già all'asilo. Non solo il Giorno della Memoria ma i canti dell'esercito, le "lettere ai soldati", il silenzio per i caduti, sono parte del curriculum scolastico ufficiale. Questa normalizzazione della presenza militare si è accentuata da quando il sionismo coloniale d'insediamento viene promosso dalle istituzioni pubbliche. Per i giovani palestinesi come Fifi destreggiarsi in questo sistema è complicato. Entrando in quell'aula cancella la sua storia e la sua cultura. Eppure deve rimanere composta e professionale. La sua calma non è distacco ma sopravvivenza. Sta facendo il suo tirocinio da studentessa-insegnante. Il controllo emotivo è una forma di protezione. Ma la scena è davvero potente perché non è finzione. Manar Shehab, cioè Fifi, è arrivata in quella scuola un mese prima dell'inizio delle riprese. Lavorava lì regolarmente, ha costruito relazioni autentiche con i bambini, era pienamente integrata. Poi ho avuto il permesso di filmare durante le feste nazionali ebraiche e israeliane. Quel momento è semplicemente accaduto. I bambini non stavano recitando, e nemmeno Fifi. Era la realtà. In genere comunque scelgo persone le cui personalità e professioni reali si allineano con i personaggi. Il dottor Walid è interpretato da un vero medico, molto carismatico. Miri è una vera infermiera, così come Fifi è una studentessa, eccetera. Prima delle riprese tutti questi non-attori partecipano a workshop intensivi che durano mesi. Insieme esploriamo le storie e le relazioni dei loro personaggi attraverso l'improvvisazione e un profondo lavoro psicologico. Vivono come i personaggi, non memorizzando battute, ma sviluppando gli istinti dei loro personaggi. Così, quando giriamo, non c'è nulla di recitato. Le emozioni sono reali. Le reazioni sono autentiche. I dialoghi provengono dal loro vocabolario e dalla loro comprensione, non dai miei".
Lei sceglie interpreti simili ai personaggi. Vale anche per la coppia di zelanti sconosciuti che si offrono di “dare una mano” a Miri, sorella dell'hostess israeliana incinta del palestinese Rami? Esistono davvero cliniche specializzate nell'interrompere gravidanze di coppie “miste”?
"In questo caso gli attori sono militanti per i diritti civili. Per quei ruoli servivano persone motivate. Dovevano assumersi il peso del ruolo ed essere convinti, come me, che provocare disagio può stimolare la riflessione, forse il cambiamento. Ma tutto si basa su testimonianze reali. Il loro comportamento riflette casi e modelli culturali che ho studiato per anni, soprattutto all'interno di organizzazioni suprematiste ebraiche specializzate in "prevenzione dell'assimilazione". In Israele, gruppi come Lehava lavorano apertamente contro le relazioni tra ebree e arabi. Vantano oltre 10.000 membri registrati e sono sostenuti da partiti come Potere Ebraico. Per anni hanno ricevuto finanziamenti pubblici tramite Hemla, un'organizzazione no-profit. Poi c'è Yad L'Achim, gruppo di ultraortodossi che svolge un lavoro simile usando l'ideologia religiosa per intervenire nelle vite personali. E La Familia, formazione di estrema destra molto aggressiva. A volte questi gruppi agiscono in modo sottile. Non si presentano con minacce palesi ma offrono "aiuto", con un sorriso, sotto la maschera della preoccupazione, della tradizione o della religione. La pressione è emotiva, morale e sociale. Ed è proprio questa forma di controllo silenziosa, quasi educata, a rendere tutto così efficace e allarmante".
Come hanno reagito i suoi “non-attori” quando hanno finalmente visto il film completo?
"Solo tre degli interpreti, Manar Shehab (Fifi), Wafaa Aoun (Hanan) e Raed Burbara (Dr. Walid), hanno potuto assistere all'anteprima veneziana. Poiché nessuno di loro aveva letto la sceneggiatura o conosceva l'intera storia al di là di ciò che avevano vissuto personalmente sul set, guardare il film completo è stata un'esperienza potente e illuminante. Hanno potuto collegare i puntini, scoprendo in tempo reale cosa succedeva agli altri personaggi. Wafaa e Manar, ad esempio, non avevano idea della relazione di Rami con Shirley o della gravidanza. Hanan e Fifi credevano che Rami fosse stato aggredito a causa della truffa assicurativa di suo padre. E questo li ha spinti a riflettere su come i loro personaggi avessero frainteso la situazione".
L'asse maestri-genitori-psichiatri sembra determinante nel trasmettere certi valori. Il lato religioso viceversa è quasi assente.
"Non volevo inquadrare questa storia attraverso il conflitto religioso, il discorso sionista riduce l'occupazione della Palestina a uno scontro tra i cosiddetti valori progressisti giudaico-cristiani e l' "arretratezza" dell'Islam. Questa cornice è sempre servita a mascherare la natura coloniale del sionismo e a ridurre la lotta palestinese a qualcosa di irrazionale o arcaico. Mentre in “Happy Holidays” la lotta è culturale e politica. Ecco perché non rivelo mai la religione della famiglia Karam (Fifi, Rami e Hanan). La loro esperienza non è definita dalla fede ma dai sistemi in cui vivono. L'oppressione che affrontano è strutturale, non spirituale. Insegnanti, genitori, psichiatri non urlano né minacciano. Si "preoccupano". Un insegnante disciplina per preoccupazione. Un genitore fa pressione per amore. Uno psichiatra etichetta per amore della stabilità. Ma in quella cura c'è una silenziosa imposizione del conformismo. E questo è il cuore del film: non come il potere venga imposto dall'alto, ma come venga trasmesso con affetto, interiorizzato e riprodotto in nome della cura.
Le forme di oppressione più potenti, del resto, sono quelle che interiorizziamo. È lì che il patriarcato diventa veramente autosufficiente, non solo attraverso l'applicazione delle regole da parte degli uomini, ma anche attraverso il mantenimento delle aspettative da parte delle donne. Non si tratta di incolpare le donne. Si tratta di rivelare come i sistemi di oppressione si evolvano e sopravvivano radicandosi nel tessuto delle relazioni quotidiane, soprattutto all'interno della famiglia. Una volta ho sentito una madre dire a suo figlio: "Non lasciare mai che una donna ti dica cosa fare". Quel momento mi è rimasto impresso. È diventato il seme di "Happy Holidays". Mi ha fatto capire come il patriarcato possa essere trasmesso non con la forza, ma con l'amore. Anche con le migliori intenzioni, i valori si ereditano dalle persone di cui ci fidiamo e che amiamo di più. Quando ciò accade, l'ego entra in gioco per proteggerle. Primo, perché non possiamo considerarci cattivi. E secondo, perché se quei valori sono sbagliati, allora cos'è giusto? Restiamo senza bussola. Quindi ci aggrappiamo a loro, anche quando feriscono gli altri, perché ci danno identità, uno scopo e un senso di sicurezza.
Il film mostra l'esistenza di una classe medio-alta di israelo-palestinesi che apparentemente vive secondo le regole della società israeliana, nonostante i e mille fili più o meno invisibili che ne perpetuano l'oppressione. Un mondo di cui il cinema non ha parlato molto: è un fenomeno che riguarda in particolare Haifa o è diffuso in tutto il Paese? Quale prezzo paga la comunità palestinese più privilegiata per il suo benessere materiale?
"I palestinesi di classe medio-alta potrebbero apparire, dall'esterno, integrati o addirittura privilegiati. Parlano fluentemente l'ebraico, guidano auto con targhe gialle israeliane e godono di libertà di movimento. In apparenza, sembrano funzionare all'interno della società israeliana. Ma sotto questa superficie si cela una profonda e persistente contraddizione.
La cittadinanza fu imposta ai palestinesi nel 1949, quando fu detto loro che se non si fossero registrati e non avessero votato, sarebbero stati considerati infiltrati (rifugiati tornati "illegalmente") e avrebbero potuto essere espulsi dal nuovo Stato. I palestinesi all'interno di Israele non sono immigrati. Lo Stato è nato intorno e sopra di loro. È stata loro concessa la cittadinanza, ma solo all'interno di un sistema che li definiva una minaccia demografica. Possono votare, eppure sono ampiamente percepiti come nemici. Questa è quella che si potrebbe definire cittadinanza coloniale. Più di 65 leggi discriminano direttamente i palestinesi dal 1948. Una delle più eclatanti è la Legge del Ritorno, che concede la cittadinanza automatica agli ebrei di qualsiasi parte del mondo, negando lo stesso diritto ai palestinesi indigeni che sono diventati rifugiati. Si tratta di persone le cui case e i cui villaggi spesso esistono ancora , a volte a pochi chilometri da dove ora vivono in esilio.
Quindi, anche per i palestinesi che sembrano essere "riusciti" dal punto di vista materiale, il costo è enorme. Il loro status è sempre condizionato. La cittadinanza non li protegge dalle leggi razziste, dalla costante disumanizzazione, dalla sorveglianza o dal rischio di perdere quella stessa cittadinanza. Il prezzo si paga nel silenzio, nell'autocensura e nel costante calcolo di quanto di sé sia lecito rivelare. È una vita vissuta entro certi limiti, dove le opinioni politiche sono taciute, l'identità è compartimentata e la paura di oltrepassare un limite inespresso è onnipresente. Persino il successo diventa condizionato. Si viene accettati solo finché non si sfida la narrazione dominante, finché non si sconvolge l'"ordine".
Che reazioni ha suscitato il film in Israele e altrove? È uscito nelle sale cinematografiche o solo nei festival? Per chi non ha esperienza diretta della vostra realtà, è uno strumento culturale formidabile. Ma forse proprio per questo è stato contestato o censurato?
"A livello internazionale, il film ha suscitato un fortissimo coinvolgimento emotivo. Nei diversi festival a cui ho partecipato, molti spettatori mi hanno detto che offriva una prospettiva mai vista, che complica le narrazioni dominanti dando accesso a una comprensione stratificata e interiore di cosa significa essere palestinesi. In Israele non uscirà nelle sale commerciali, ma lo abbiamo già proiettato nei centri culturali palestinesi di Jaffa e Haifa. L'accoglienza è stata incredibilmente toccante. Molti tra il pubblico hanno detto: "Questi siamo noi". Si sono riconosciuti nei personaggi, nelle case, nei silenzi, nei compromessi. Il film ha dato voce a cose spesso taciute nella nostra comunità, soprattutto riguardo all'oppressione interiorizzata, al patriarcato e all'identità.
Un altro aspetto incoraggiante è stata la presenza di alcuni spettatori israeliani a quelle proiezioni. Credo che a colpirli sia l'umanità del film. “Happy Holidays” non punta il dito. Non demonizza nessuno, nemmeno chi fa cose orribili. Piuttosto, mostra come le persone siano plasmate dalla paura, dall'amore, dall'ideologia e dal desiderio di appartenenza. Questa complessità emotiva offre spazio alla riflessione, anche per gli spettatori che provengono dalla parte dominante del sistema. Il mio film insomma sfida le percezioni, ma lo fa attraverso l'empatia. Non predica, ma rivela. E in questo, spero che inviti le persone a riflettere più profondamente sulle strutture in cui viviamo tutti e sui modi in cui le sosteniamo inconsapevolmente".
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