Cultura
12 agosto, 2025Con l'intelligenza artificiale sempre più pervasiva, tanto da investire ormai anche il linguaggio, ci troviamo davanti a una soglia. A un salto evoluzionistico. E mentre ogni aspetto della vita ne uscirà mutato, sta a noi cogliere le potenzialità. A partire da nuovi modelli educativi
Un salto quantistico è alle porte. Un passaggio nel quale umano e non umano, sistemi informatici e Pianeta intero finiranno per essere in connessione. Un mutamento inevitabile. Al quale giungere preparati.
Derrick de Kerckhove, sociologo belga naturalizzato canadese, docente in varie università internazionali e anche in Italia, studia, monitora, anticipa gli effetti della cultura digitale da decenni. È stato direttore del McLuhan Program in Culture & Technology dell’Università di Toronto; ha teorizzato l’intelligenza connettiva; ha scritto decine di libri sul sapere digitale. E oggi, alla soglia degli ottant’anni, osserva le possibilità dell’intelligenza artificiale. Una rivoluzione che lo ha indotto a scrivere il saggio “L’uomo quantistico. Mente, società, democrazia: dove ci porterà la prossima rivoluzione digitale”, in uscita il 17 settembre per Rai Libri.
C’è una frase che le ho sentito ripetere: prima l’intelligenza artificiale era schiava. Ora è diventata padrona. Cosa intende dire?
«Vuol dire che fino a poco tempo fa l’Ia era inserita nella tecnologia per facilitare compiti, per completare e integrare servizi. Oggi è capace di sostituire il nostro modo di pensare, imitandolo, ma talvolta anche superandolo. Ciò significa che siamo tutti i prigionieri. Siamo il proletariato intellettuale di OpenAI».
E che atteggiamento dovremmo avere di fronte a questa consapevolezza?
«Dobbiamo prendere coscienza del fatto che questo cambiamento è rivoluzionario almeno quanto l’arrivo di Internet. Tutto, sul piano intellettuale, mentale, sensibile, ogni aspetto della vita ne è coinvolto e scombussolato. E la prima cosa a cambiare è il rapporto con il linguaggio, da sempre il nostro codice fondamentale. Siamo di fronte a una psicotecnologia, una tecnologia della mente e linguistica».
Una tecnologia che investe il linguaggio tocca la nostra essenza di umani.
«È così. Incide sull’essenza del mondo come l’abbiamo sinora conosciuto. Perché l’Ia si sta impossessando del linguaggio. È straordinario».
Veramente è anche molto preoccupante.
«A me interessa vedere le possibilità di sperimentare: e mi sembrano favolose. Per un ottantenne come me è il mondo che si apre davanti».
Che cosa la entusiasma tanto?
«Ma più che entusiasta mi sento privilegiato. Come se l’innovazione avesse puntato dritto su di me per mostrarmi il mondo che ci attende».
E cosa vede, dal suo osservatorio?
«Il libro che ho appena finito di scrivere, “L’uomo quantistico”, parte dall’invenzione della scrittura come sistema operativo culturale generale che ha fondato l’Occidente, che ha prodotto il sistema alfabetico e tutto quello che siamo, e arriva sino al sistema operativo digitale. Se una civilizzazione di 2.500 anni è investita in uno dei suoi aspetti più decisivi con un impatto così grande vedo che qualcosa di incredibile sta accadendo per il nostro futuro».
Siamo sulla rampa di lancio dei prossimi 2.500 anni?
«Forse meno, perché io aspetto anche il quantum computing: l’esplosione delle possibilità di innovazione, di condivisione, di distribuzione, attraverso l’utilizzo della fisica quantistica, che va oltre la nostra immaginazione».
Ci fa qualche esempio?
«Immagino una situazione in cui tutti i sensori della Terra analizzati in tempo reale ci restituiscano una fotografia dello stato del mondo. Con i nostri poteri non sappiamo far altro che distruggere. Ma c’è bisogno di passare da un atteggiamento predatorio a una dimensione quantistica vera, che vuol dire un modo diverso di sentire le cose e di essere connessi col Pianeta».
L’immagine del Pianeta con le sue fragilità porterebbe a un cambio di sensibilità?
«Sì. Come la scrittura ha cambiato la nostra sensibilità, creando uno spazio mentale contenente la cultura che ci ha guidato nelle nostre scelte, siamo di fronte a un cambiamento decisivo per il nostro modo d’essere. È una straordinaria possibilità ma anche un pericolo perché mette il mondo in disordine: ogni volta che arriva una nuova tecnologia il mondo si ritrova in disordine. È possibile che gran parte della popolazione abbandoni molte abitudini, ad esempio non legga più, deleghi qualunque cosa ai centri artificiali e finisca per non assimilare nulla solo con la sua testa? È possibile. Ma è il risultato di una libera scelta».
Ce la siamo cercata l’atrofia cognitiva, tutte le volte che abbiamo rinunciato allo sforzo di un arricchimento culturale?
«Sì, questo è il problema, ritrovarci ora con la testa vuota. Però voglio dirle una cosa, e sono un po’ in imbarazzo a farlo: quando c’è un’atrofia qualsiasi vuol dire che quella cosa, quell’abilità o qualità, non è più necessaria».
Dunque, non stiamo capitolando davanti all’intelligenza generativa. Siamo davanti a uno step evoluzionistico?
«Sì, siamo davanti a una soglia, a un salto. Ed è preoccupante perché il progresso ha lasciato indietro molti aspetti della conoscenza: sul piano tecnico-pratico, in termini di capacità di sopravvivenza, abbiamo perso ogni sapienza antica. Abbiamo esternalizzato le nostre funzioni cognitive di base: la memoria, l’orientamento, la capacità di fare scelte. Ma è colpa nostra, appunto. Ed è un processo irreversibile: anche perché non si possono frenare gli interessi dei grandi tecnocrati, dei distributori di energia».
Non ci sono possibilità di resistenza?
«Sono certo che ci saranno alcuni che continueranno a essere custodi del linguaggio. Oggi se chiedo a ChatGpt 4.0 di creare una lista di nuove parole me le dà, perché l’intelligenza artificiale generativa è capace di inventare. Siamo già dentro un sistema che sa parlare con noi e dare ordini ed è capace di prendere il potere realmente: non solo, come dicevo, di passare da serva a padrone, ma a padrone che sa organizzare tutto. È una datacrazia, in cui siamo sempre meno autonomi e sempre più vulnerabili. Ma continueranno a esserci cultori della lingua italiana che cercheranno di mantenere un linguaggio antico, più prezioso».
Di difendere una parola che merita di non morire. L’attacco di un articolo, forse, capace di catturare il lettore?
«Devo riconoscere che, secondo la mia esperienza con Claude di Anthropic, con ChatGpt di OpenAi, con Deep Seek, con Perplexity, Mistral, il linguaggio praticato da questi sistemi è ancora un po’ legnoso. E poi c’è un’altra capacità che le macchine non hanno: il pensiero laterale».
Una prerogativa che resterà umana?
«Forse. Però già oggi le macchine sono validi poeti. E quello che, al momento, dal punto di vista del linguaggio non ci convince verrà superato da versioni più raffinate o che somigliano di più al nostro stile. Perché nel momento in cui puoi dare all’Ia modelli che ti piacciono, più eleganti, allora puoi generare risultati migliori. Dovremmo aspettare che la macchina maturi al suo ritmo. E che, di tappa in tappa, ci lasci scoprire qualità stilistiche migliori, la possibilità di pensare lateralmente, l’importante della co-creazione».
E che cosa produce lasciare che la macchina maturi al suo ritmo?
«Che si crei un capitale cognitivo globale fenomenale. C’è da dire che se ognuno mette la propria vita dentro questo sistema, le sue idee e le sue scoperte, il risultato dovrebbe appartenere a tutti. Invece, non solo questo non è successo ma si stanno creando centri di potere ancora più forti».
Che mettono in discussione il senso stesso della democrazia.
«È un fatto tipico di questo momento. Siamo di fronte a una crisi epistemologica, economica e anche di valori. Ma penso che tutto ciò impallidisca al confronto delle nuove possibilità».
A patto che ci sia una vera alfabetizzazione: come si fa a rendere le persone in grado di utilizzare questa tecnologia?
«Non mi piace la parola alfabetizzazione. Quella giusta è educare. Educare a imparare. Certo, bisogna dare a tutti questa possibilità. Ed è compito dello Stato promuoverla. L’istruzione è la prima arma di un Paese. Ma non sempre uno Stato capisce ciò che è davvero utile. Oggi i ragazzi imparano da soli. A scuola, o nelle università, sono sempre un po’ più avanti dei loro stessi docenti».
Come immagina questa formazione all’uso dell’intelligenza artificiale?
«Cominciamo dall’inizio, da un ragazzino che a 6 anni inizia la scuola primaria e che arriva già con il patrimonio digitale di ciò che ha fatto prima. Dal momento che il bambino ha già usato il telefonino suo o del padre da quando aveva due-tre anni, ha cominciato a creare il suo capitale cognitivo digitale. Bisognerebbe non buttare niente di ciò che ha fatto. Perché tutto arricchirà la sua dimensione, la sua identità, il suo modo d’essere. La mia idea è che il capitale cognitivo digitale si costituisca sin dall’infanzia e continui a crescere e ad arricchirsi di anno in anno, fino all’università, alla scelta di un mestiere, per tutta la vita, come un curriculum personale. In tempo reale ognuno avrà a disposizione un sistema adatto a sé col quale dialogare, a cui fare domande, allineato alla sua cultura e alle sue esperienze».
Ma tutte le cose non digitalizzabili? Le esperienze fisiche, le emozioni?
«Quelle restano. E anzi diventano sempre più importanti. È la parte intellettuale dell’essere a confluire nella macchina. Il corpo sarà ancora più importante di adesso. Del resto, non è sempre stato così: c’è voluto Freud per far ritornare il corpo, ignorato, nella mente della civiltà occidentale. La dimensione fisica resisterà, ed è meraviglioso averla. Dobbiamo imparare a fare i prompt, a trattare con la macchina, ma la prima cosa da insegnare ai ragazzi è a gestire il loro capitale cognitivo digitale».
Perché la macchina lavora meglio se coopera con l’uomo. E vale anche il contrario?
«Assolutamente sì. La vera rivoluzione che ci permette di non subire la digitalizzazione è un’integrazione dell’intelligenza artificiale con l’intelligenza umana. Una collaborazione creativa, all’insegna della fisica quantistica, che permetta la connessione tra uomini, sistemi informatici e il Pianeta».

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