Cultura
12 agosto, 2025Si apre il 4 settembre la rassegna dedicata al contemporaneo nella musica, nella danza, nel teatro. Due mesi di spettacoli, 700 artisti. E un compleanno speciale da festeggiare. Come racconta Fabrizio Grifasi, direttore generale e artistico della Fondazione Romaeuropa
Lo sguardo rivolto al futuro, le radici piantate nella memoria. L’utopia a braccetto con la realtà. Il potere dell’immaginazione come forza di cambiamento. Con la sua formula consolidata, e di anno in anno ribadita, torna dal 4 settembre al 16 novembre Romaeuropa Festival. E brinda ai suoi primi 40 anni: un’avventura che ha portato nella Capitale il meglio della creatività contemporanea internazionale. E che ha contribuito a creare un gusto, un’attenzione, una geografia inedita di spazi e di curiosità verso la musica, il teatro, la danza, espressioni del presente. Sotto il segno dell’Europa: «Un elemento di visionarietà, già nella scelta del nome, che va riconosciuto a Monique Veaute, insieme con Jean-Marie Drot, l'allora direttore dell'Accademia di Francia, a Giovanni Pieraccini e alla direttrice dell'Accademia Tedesca Elisabeth Wolken», sottolinea Fabrizio Grifasi, direttore generale e artistico della Fondazione Romaeuropa.
In un tempo che lancia all’Europa provocazioni e sfide, l’intuizione di allora resta attualissima. Ma per capire come faccia un festival a dare ancora le risposte giuste, intrecciando eredità del Novecento a nuovi format e nuove estetiche, dobbiamo riavvolgere il nastro. «Se torniamo a 40 anni fa, a un periodo pre-euro, senza ancora programmi europei di sostegno culturale, dobbiamo riconoscere l’intuizione nel parlare d’Europa, il coraggio e la volontà di porre al centro Roma, la sua storia, il suo essere Capitale. Questi elementi sono la nostra bussola. Conservano la loro necessità nel momento che attraversiamo e che pone domande sulla sostanza stessa di cui è fatta l’Europa: politica, economia. Ma anche cultura: un’Europa dei cittadini è prima di tutto un’Europa della conoscenza».
Quarant’anni fa, quando il festival nasceva, l’Europa addensava entusiasmi e aspettative. Per rifondarla dall’attuale declino dobbiamo ripartire dalla cultura?
«Non so se davvero l’Europa sia in declino. Certo è molto spaventata e messa in discussione. Ma l’Europa è anche un grande spazio di lavoro, di ricerca e di possibilità per gli artisti. Quarant’anni fa solo i grandi nomi potevano girare in Europa. Oggi è la normalità anche per piccole compagnie, che possano trovare in altri Paesi o nel dialogo con altre istituzioni e altri festival aiuti, risorse, scambi. Non dimentichiamo che il lancio del grande Bob Wilson è avvenuto in Europa. L'approdo di “Einstein on the Beach” alla Biennale e al Festival di Avignone sono stati eventi tellurici con l'Europa protagonista. Un’Europa come spazio culturale vero, vivo, in cui gli artisti hanno trovato sostegno».
Torni a quel mondo di pionieri: mi fa altri esempi?
«Lia Rodrigues con la sua scuola al Centro de Artes da Maré nell’omonima favela di Rio de Janeiro: parte dei proventi delle sue tournée europee permettono a giovani danzatori di lavorare. Ma penso anche a Qudus Onikeku, che ha creato il primo centro coreografico a Lagos. Luogo del contemporaneo che gli ha consentito di rinsaldare il rapporto con la tradizione Yoruba».
Anche Romaeuropa ha fatto da trampolino di lancio per molti artisti.
«Per tantissimi. Oggi, ad esempio, sono contento che Fabiana Iacozzilli, programmata da Maura Teofili all'interno di “Anni luce” nel 2018 con “La classe”, sia stata al Piccolo alcuni mesi fa e stia per tornare a Romaeuropa con una tournée straordinaria. Penso a Daria Deflorian che ho visto, con Antonio Tagliarini, nel 2008 e che abbiamo accompagnato in tante creazioni. Ho conosciuto i Muta Imago tanti anni fa all'interno di uno spazio indipendente. Ma anche Christos Papadopulos, che ormai è star internazionale, era stato selezionato da Francesca Manica, in una sezione chiamata Dancing Days col compito di individuare giovanissimi e nuove coreografie. Abbiamo portato artisti per la prima volta in Italia, come Julien Gosselin, nel 2018, con “Le Particules Elementaires”, al Teatro Vascello: Julien oggi dirige il Théâtre National de l'Odéon. O Caroline Guiela Nguyen, nuova direttrice del Teatro Nazionale di Strasburgo, con noi nel 2018 e che torna con uno spettacolo davvero toccante. Ci sono tanti artisti che Romaeuropa ha intercettato grazie a una pluralità curatoria e di sguardi, che è ricchezza e modello di lavoro».
Come è cresciuto, nel tempo, il gusto del pubblico?
«Il pubblico è sempre stato per noi un punto di riferimento essenziale, anzi un’ossessione. Perché la condivisione è un elemento essenziale di un progetto culturale. La base di tutto è la comunità che sta intorno a noi. E questa si costruisce solo con continuità, affidabilità, lavorando con gli attori del territorio: le scuole, le accademie, le università private e pubbliche. Presentare uno spettacolo, soprattutto di artisti non conosciuti, significa organizzare un lavoro di condivisione che da un lato utilizza i più moderni strumenti di marketing, dall’altro sa ancora radicarsi nel territorio. Romaeuropa è un festival nomade, e dunque il dialogo con i vari soggetti della città è necessario. La rete delle accademie straniere, a partire dall'Accademia di Francia e dall'Accademia tedesca, è nel nostro Dna e ci ha permesso il lancio del festival. C’è poi la rete delle istituzioni che operano a Roma. Quelle degli spazi indipendenti, della formazione, dell'associazionismo: tutti compongono un mosaico di cui Romaeuropa è punto di snodo».
Quanto incidono sul festival le politiche culturali attuali?
«Romaeuropa rimane una fondazione privata. Con una partecipazione pubblica, ma con un board in cui ci sono ambasciate e accademie. Questo permette un dialogo importante tra istituzioni italiane ed europee a prescindere dalle diverse figure che si alternano nel governo delle istituzioni. Abbiamo sempre cercato un dialogo con tutti, lo cerchiamo ora e lo cercheremo nel futuro, difendendo la forza delle proposte artistiche. In tutta Europa ci sono difficoltà per la cultura e nuove priorità della spesa pubblica. In questo contesto assume un valore ancora più importante lavorare assieme e inventare nuove progettualità».
Quali, ad esempio?
«Siamo presenti in diversi progetti europei per la cultura. Come Excentric, iniziativa di Horizon Europe, capitanato dall’Erasmus University di Rotterdam. Dentro c'è Ars elettronica, che è il più grande festival di elettronica e di ricerca tecnologica. A momenti di crisi deve corrispondere una capacità di guardare avanti, di trovare nuove strade e nuovi partner. Come quello costruito con Dance Reflection di Van Cleef & Arpels, programma mondiale di danza contemporanea. Poi è chiaro che un festival di creazione contemporanea si assume un rischio culturale: quando sosteniamo artisti poco conosciuti, giovani, o nel produrre opere che sono autentiche scommesse. Quando riescono, promuovono il cambiamento».
Molti sono i cambiamenti in corso: nuove tecnologie invadono gli spettacoli. E il rapporto con l’intelligenza artificiale è solo all’inizio.
«Nasceranno una serie di problemi enormi, per il cinema, la tv, per gli autori, per lo spettacolo dal vivo. Siamo chiamati tutti a studiare, a cambiare, a capire di più. Questo è un tempo eccitante, perché ci rimette totalmente in discussione».
Quanto le guerre in corso hanno condizionato la messa a punto del programma di quest’anno?
«Condizionano perché come cittadini siamo in uno stato di evidente angoscia. Stanno incidendo in una maniera ancora più profonda di quanto ci rendiamo conto. E poiché gli artisti sono termometri ne sono principalmente coinvolti, anche quando non danno vita a uno spettacolo sulla guerra. Non potremmo essere un festival del contemporaneo se non provassimo a guardare le cose attraverso i loro occhi. Lo scorso anno abbiamo portato in scena Amos Gitai con “House” con attori israeliani e palestinesi. La forza delle opere è fondamentale: essere attenti ai cambiamenti, con lavori originali e convincenti».
Parliamo di quest’anno. Ci aiuti a scegliere, tra 110 spettacoli.
«Io trovo particolarmente interessante quegli spettacoli che ridefiniscono il rapporto tra la scena, la musica e le forme performative. Faccio qualche esempio: “Mystica” di Kasper Vandenberghe, Timo Tembuyser e Jens Bouttery, ispirato alle mistiche del XIII secolo. E “Flammenwerfer” di Hotel Pro Forma con Blixa Bargeld e una selezione di composizioni tratte da precedenti lavori di Nils Frahm. Un terzo spettacolo che voglio citare è quello della fiamminga Miet Warlop, al suo primo debutto a Roma con “Delirium”, ispirata al movimento delle onde: un’esperienza visiva e sensoriale bellissima grazie a 7 chilometri e mezzo di teli colorati e imbobinati, manipolati dai performer, che creano delle immagini straordinarie. In termini di ibridazione, c’è anche Christian Marclay, che nel 2011 ha vinto il Leone d’oro alla Biennale Arte. Ha scritto un pezzo che è quasi una suite, si chiama “Constellation” e viene a eseguirla a Roma con un'orchestra specializzata nell'improvvisazione musicale. Nella seconda parte dello spettacolo c'è Stephen O’ Malley che è stato uno dei grandi dinamitardi del post rock».
E gli imperdibili, tra gli artisti italiani?
«I Mute Mago con “Atomica”, altra questione cruciale del nostro tempo. Ho già citato Fabiana Iacozzilli, che torna con lo spettacolo “Oltre” ispirato al disastro aereo delle Ande nel 1972. Da non perdere è la sezione Ultra: il cuore rigenerato di Romaeuropa. Ghost Track con Gioia Salvatori è un format dedicato a scrittura, comicità, poesia. Mi piace ricordare anche la curatela di Stefania Lo Giudice per la sezione Kids: con compagnie fiamminghe, catalane, di giovani italiani, con l’idea di destinare ai bambini spettacoli importanti».
Faccia le sue scelte anche per la danza.
«Sono felice che per la prima volta venga a Roma (LA)Horde con il Balletto di Marsiglia, un collettivo che viene da un hip hop un po' concettuale e celebra l’energia dei giovani. Sono davvero contento di “Valentina”, lo spettacolo di Caroline Guiela, prima nazionale in corealizzazione con Fondazione Teatro di Roma e in collaborazione con Piccolo Teatro di Milano: il racconto delicatissimo di una mamma rumena che va a Strasburgo per un trapianto di cuore senza parlare una parola di francese e della figlia Valentina che impara la lingua rapidamente, facendosi reinterprete e mediatrice. Un messaggio molto importante, perché il teatro è luogo di mediazione per eccellenza, spazio di incontro, terreno in cui tradurre. E, nello sforzo di rendere comprensibili le parole, luogo per capirci».
Foto in apertura per gentile concessione di F. Strauss
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