Cultura
13 agosto, 2025Tra eterna sindrome dell’impostore, fantasmi letterari. E un ragazzino col destino di scrivere al centro del nuovo libro
Considerata una delle scrittrici americane viventi più importanti, una delle più innovative, più capaci di raccontare lo spezzarsi del grande sogno americano, Barbara Kingsolver ha raccontato gli Stati Uniti andando nel cuore delle zone povere, rurali. Zone che conosce bene, in cui è nata ed è cresciuta. Con “Demon Copperhead” (Neri Pozza, tradotto da Micol Toffanin), ha vinto il Pulitzer del 2023, il Women’s Prize per la narrativa. Quest’anno, per lo stesso editore, è uscito “Un mondo altrove”, che racconta la vita di Harrison Sheperd, artista che, in un intreccio di personaggi reali e d’invenzione, narra di un viaggio alla scoperte di sé.
In un’intervista ha detto di non essere mai entrata in una stanza senza avere la sensazione che “lo sapessero, che lei non dovesse trovarsi lì”. E più vola alto, più la sensazione peggiora. Si sente fuori posto?
«Ho imparato a conviverci, ma è sempre stato così ed è così ancora oggi. So muovermi in qualsiasi situazione sociale, però la sindrome dell’impostore, di cui ho sempre sofferto, non riesco a digerirla».
Anche dopo il successo e il Pulitzer?
«Per me resta sorprendente che, ad esempio, dei giornalisti dall’Italia vogliano intervistarmi. Sono cresciuta sentendomi invisibile e coltivandola, questa mia invisibilità: da bimba quando immaginavo d’avere un superpotere desideravo d’essere invisibile. Ed è qualcosa che continua a piacermi».
Perché desiderava l’invisibilità?
«Sono stata molto bullizzata. E spesso mi ritrovavo a pensare che se soltanto gli altri bambini non avessero potuto vedermi, avrei vissuto serenamente. Mi piaceva leggere, altra cosa che non era ben vista dai compagni. Ma imparai presto».
A che età?
«A tre anni. Da sola. Vedevo mio padre leggere, era una di quelle persone con il volto sempre nascosto dietro delle pagine - il giornale, un libro, persino la scatola dei cereali; se c’erano delle parole scritte, potevi star sicuro che le avrebbe lette. Lo vedevo leggere, e mi chiedevo cosa ci fosse di tanto bello. Così, un pomeriggio, quando lui posò il giornale, io lo presi, me lo misi sulle gambe e, seduta sulla sua poltrona, passai ore a sforzarmi di dar un senso alle lettere. Finché non ci riuscii: arancia. La prima parola che lessi, lo ricordo bene. Arancia. Pensai: ecco perché legge tanto, è magia».
A scuola, però, la cosa non fu accolta bene.
«Non solo dai compagni, pure dalla maestra. Donna anziana, aveva insegnato a leggere all’intera contea, e credo mi vedesse come una minaccia alla sua figura. Mi puniva. Istigava gli altri contro di me. Sono sempre stata quella diversa ma la cosa non è mai stata un problema per me».
Da bambina ha trascorso qualche anno in Congo. Perché?
«Abitavamo in un villaggio piccolo e povero, lontano da tutto, le case di fango, niente strade, niente contatti con l’esterno. Ogni settimana veniva della gente su dei carri e ci vendeva ciò di cui avevamo bisogno: frutta e verdura, vestiti. Mio padre era una persona speciale. È cresciuto in una famiglia povera, ha studiato ed è diventato medico e ha lavorato sempre per aiutare i bisognosi. Così per gran parte della mia infanzia abbiamo vissuto in parti rurali, dove lui faceva il medico».
Venendo a “Demon Copperhead”: lui nasce e cresce nelle stesse zone di cui stiamo parlando. Ma non sembra arrabbiato.
«Invece lo è. Solo, lo è nel modo in cui possono esserlo i bambini: in silenzio. Sente di non avere controllo sulla sua vita, cosa comune negli Appalachi, per cui la gente soffre. E questo lo fa star male, ma al tempo stesso, credendo di non poter fare niente, non ha mai grandi sbuffi di rabbia. In lui c’è una dolcezza grande, profonda».
È vero che l’idea per Demon Copperhead le è venuta dormendo nel posto in cui Dickens scrisse David Copperfield?
«Un’epifania, esperienza che ancora oggi mi pare assurdo raccontare. Però sì, andò così. Ero nel Regno Unito, alla fine di un tour mondiale sfibrante. Ero stanca, dormivo poco. Un pomeriggio, cercando sul cellulare un posto tranquillo dove stare, trovai un alberghetto che pareva fare al caso mio. E, senza troppo pensarci, ci andai. Venne fuori fosse il posto in cui stette Dickens scrivendo David Copperfield. La camera in cui era stato era aperta, nell’hotel c’eravamo solo i proprietari, io e mio marito così quando lui andò a letto io entrai. Sedetti alla sua scrivania, puntai lo sguardo avanti a me e lo sentii. Giuro, come fosse lì con me».
Cosa le disse?
«Da mesi avevo in testa di scrivere il grande romanzo degli Appalachi e sapevo di cosa volessi parlare; di quella rabbia, del problema degli oppioidi e della povertà di cui si soffre. Solo, mi dicevo: a chi vuoi che interessi un romanzo simile? Le parole di Dickens mi aiutarono. Arrabbiato con me, disse che stavo sbagliando. Un libro del genere avrebbe interessato tanti».
Come finì?
«Mi diede ciò di cui avevo bisogno: la chiave per entrare nella storia. A raccontare doveva essere un bimbo. Chi non crederebbe a un bambino? Proprio come aveva fatto lui con David Copperfield. E nacque il mio Demon».
“Un mondo altrove” è, sembrerebbe, un romanzo sull’invisibilità.
«Un’invisibilità rivolta verso l’interno. Per gran parte del libro Sheperd, il protagonista, non usa mai il pronome “io”. Si sente invisibile soprattutto a sé stesso.
Perché?
«Solo quando realizza chi è ammettendo a sé stesso due cose è, finalmente, capace di guardarsi, e vedersi: è gay, è uno scrittore. Dobbiamo vederci per accettarci e accettarci per vederci, altrimenti saremo sempre invisibili a noi stessi».
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