Cultura
28 agosto, 2025Un nuovo spazio espositivo. A Trondheim, in Norvegia. Dove sei acquisizioni su dieci sono opere di donne. Ora una mostra racconta l’ultimo Picasso. Fuori da ogni logica celebrativa
Nel cuore glaciale e lucido della Norvegia, tra le architetture pulite e le nostalgie gotiche di Trondheim, c’è un edificio che sembra respirare a un ritmo diverso. È il vecchio palazzo delle Poste, gioiello Jugendstil dei primi del Novecento, oggi reincarnato nel PoMo (Posten Moderne), il nuovo museo d’Arte Contemporanea inaugurato lo scorso febbraio.
Un nome che suona un po’ ironico, un po’ serio, come tutto ciò che funziona nella cultura nordica, dove l’austerità si piega all’estetica senza cedere alla posa. Serio quanto colorato e viceversa, è uno spazio che ambisce a diventare centro, cuore e propulsore dell’arte internazionale e per riuscirci non si accontenta di una bella collezione permanente (Sol LeWitt, Simone Leigh, Franz West, Katharina Fritsch, Louise Bourgeois e molti altri), ma costruisce un’identità dichiaratamente contemporanea, inclusiva e femminista. Una macchina museale nuova che inaugurando con la mostra “Postcards from the Future”, che si è conclusa di recente, ha già definito la propria postura politica: almeno il 60 per cento delle nuove acquisizioni saranno opere di artiste. «Non per moda, ma per correggere una stortura.
Non per bandiera ideologica, ma per ridare complessità a una narrazione troppo spesso filtrata da uno sguardo unico», spiega la direttrice Marit Album Kvernmo. Eppure, il colpo vero, il gesto inaugurale che lo impone sulla mappa internazionale, è “The Code of Painting” (“Il Codice della Pittura”), la nuova mostra dedicata a Pablo Picasso in programma fino al 26 ottobre. Titolo che ha il sapore del mistero e dell’ossessione, in linea con l’uomo e l’artista che, negli ultimi anni della sua vita, si ritirò non certo per morire, ma per accelerare.
Quella a Trondheim non è l’ennesima retrospettiva celebrativa (Picasso è praticamente ovunque, dai musei très chic ai centri commerciali fino ai gadget in aeroporto), ma un affondo, uno scavo, un’incursione critica nei suoi ultimi anni, quelli che molti storici dell’arte hanno liquidato come senili, enfatici e manieristi quando, invece, sono forse i più radicali, quelli in cui la mano va più veloce della mente, senza mai perdere l’intelligenza di un gesto che si intensifica. In questo contesto, Picasso non è un’icona, ma una sfida, è il vecchio leone che ruggisce ancora e che ricorda a tutti che la pittura, quando è viva, non ha età, non ha morale, non ha freni.
Curata da Dieter Buchhart e Anna Karina Hofbauer, in collaborazione con la Fundación Almine y Bernard Ruiz-Picasso, “The Code of Painting” mette in scena oltre 50 opere realizzate tra il 1969 e il 1972, più una selezione di ceramiche dipinte a mano, oggetti domestici eppure sacrali, piatti diventati icone e corpi che portano il segno. In quelle pennellate ben visibili anche da lontano (in molte opere la vernice sembra ancora fresca), si sente il peso dell’età e il furore di chi sa che il tempo si sta chiudendo, ma, anziché ridursi, Picasso si espande e le sue figure si deformano senza perdere intensità.
Tele come “Le joueur de cartes II”, “Tête de femme au chapeau”, “Femme à l’oiseau”, tutte datate 1971, non cercano equilibrio, ma una verità che non è mai oggettiva: è quella che sta nel corpo, nella carne del colore e nell’atto di dipingere come se il mondo fosse già passato. Il colore slabbrato e le anatomie sono appena accennate fanno emergere un’infanzia della forma che non è mai un ritorno al bambino (come voleva Paul Klee), ma un’uscita dalla Storia, un linguaggio che implode, che si autodistrugge e che rifiuta l’eleganza come ultima maschera del potere. La pittura dell’ultimo Picasso non serve a rappresentare, ma a esistere. Ogni tela è una battaglia.
Ogni figura è una possibilità che affiora e poi si nega. Non cerca la bellezza come fine, ma come effetto collaterale dell’intensità e in questo dimostra di essere più moderno dei moderni e più libero degli avanguardisti. Tutto ciò la mostra lo racconta molto bene, a cominciare dall’allestimento, firmato dalla scenografa francese Cécile Degos, che non interviene mai con troppa retorica, ma ci accompagna in ogni piano del museo che diventa così un movimento dove, attorno alle opere principali, si dispongono dialoghi, installazioni e proiezioni che non spiegano nulla, ma aprono alla nostra conoscenza e al nostro stupore permettendoci di costruire il nostro codice.
Quello del titolo non promette soluzioni, ma è un invito a decifrare l’arte come linguaggio irriducibile, ancestrale e fisico. Il PoMo dimostra così di non essere una scatola bianca per grandi nomi, ma una piattaforma curatoriale, politica e poetica. Il progetto di India Mahdavi e Erik Langdalen ha saputo trasformare un luogo denso di storia in un laboratorio di futuro, un edificio che conserva il suo carattere e vi aggiunge i colori (giallo e fucsia all’interno, un arancione acceso vicino ai bagni con specchi deformanti realizzati da Sébastien Gafari), curve e angoli pensati per ospitare il corpo (nella splendida biblioteca) e l’occhio del visitatore che arriva fin sul tetto.
Lì, come una bandiera simbolica, svetta l’installazione luminosa “Our Magic Hour” dell’italiano Ugo Rondinone. Una scritta arcobaleno sospesa tra malinconia e speranza che la sera si accende come un’invocazione. Un’opera che non illustra, ma incornicia lo spirito del PoMo: una soglia permanente, ma soprattutto un faro silenzioso che prepara lo sguardo a ciò che accade dentro.

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