Cultura
18 settembre, 2025Quando l’esistenza finisce ogni cosa appare più chiara. E il segreto è nella concentrazione. Per il suo nuovo romanzo Marcello Fois sceglie il passo del narratore dell’Ottocento
Sceglie il passo calmo e profondo del narratore dell’Ottocento, Marcello Fois, per il suo nuovo romanzo “L’immensa distrazione” (Einaudi). Ma la sorpresa sta nell’omniscienza, che non è quella manzoniana – con cui gioca, certo, anche attraverso le apostrofi al lettore. La dote (o la dannazione) di entrare nei pensieri di tutti non c’entra con la letteratura, c’entra con la morte. E così fra un Ettore Manfredini e un Lev Tolstoj si annulla ogni differenza (dopo la vita, naturalmente). La morte di Ettore Manfredini è affollata di personaggi come quella di Ivan Il′ič, anche se la sua stanza è vuota. Ed è lui stesso a raccontarli dal suo speciale punto di vista.
«Ettore Manfredini, nonostante fosse appena morto, la mattina del 21 febbraio 2017 ebbe la netta sensazione di svegliarsi». Un incipit che ricorda quello di “Amabili resti” di Alice Sebold («Mi chiamavo Salmon, come il pesce. Nome di battesimo: Susie. Avevo quattordici anni quando fui uccisa, il 6 dicembre del 1973») o il monologo di Addie Bundren in “Mentre morivo” di Faulkner. Del resto, questo è un romanzo che rimanda continuamente ai classici, antichi o contemporanei, volontariamente o involontariamente (ma suppongo la prima), è un labirinto di allusioni, quasi una caccia al tesoro.
Il segreto di questa omniscienza post mortem è la concentrazione. E qui bisogna ricordarsi che i romanzi di Marcello Fois nascono tutti dal titolo. L’immensa distrazione è semplicemente la vita, cioè il contrario della morte, che è concentrazione, appunto.
«Ettore Manfredini capí che in vita quest’esattezza nel definire le cose, gli avvenimenti, le persone, non è mai concessa. Vivere è un’immensa distrazione dal morire. E perciò un sacco di tempo lo si spende a fare, pensare, agire, cose indifferenti. Cosí può accadere che non si ami abbastanza, né si odi abbastanza. Può capitare persino di investire un’immensità di energie a trovare soluzioni inutili per problemi inutili».
Questa consapevolezza appena acquisita, a novantacinque anni, ben oltre l’ultimo minuto, nell’attimo in cui il cuore smette di battere, ha la forma di «una coscienza assoluta, una concentrazione senza distrazioni». Un dono finale un po’ inutile perché Ettore adesso che può vedere la sua famiglia con una chiarezza mai avuta, non può più interagire con nessuno, e non può cambiare le cose. Un supplizio? Sarebbe sbagliato leggerlo così. Non c’è nessun moralismo escatologico nel libro di Fois. Semmai un’accettazione dei fatti, per quello che sono o sono stati. Un tutto qui enorme quanto la vita di ogni uomo, breve o lunga che sia.
«La sua vita gli apparve improvvisamente come un materiale viscoso e granuloso che stesse passando attraverso un setaccio finissimo. Ma questa nuova consapevolezza che si faceva strada dentro di lui non aveva niente a che fare con i bilanci o cose simili: si manifestò piuttosto nella tranquillità di accettare la moltitudine di errori che, in quella breve stagione che era stata la sua esistenza mortale, aveva commesso».
Le colpe di Ettore Manfredini s’intrecciano con la grande storia del mondo o con la piccola storia di qualsiasi famiglia, a volte sono spudoratamente sue e altre lo scavalcano, altre ancora gli passano accanto inosservate. In ogni caso, per nessuna precisa ragione, lui le paga meno di altri, sempre. E muore a novantacinque anni senza mai essere stato felice, ma neanche infelice.
Più tormentate altre esistenze intorno a lui. Come quella della figlia Ester, che vive il ‘68 come un’ossessione per l’esattezza, sempre lì a puntualizzare e a sottolineare gli errori altrui, senza margini per la leggerezza, come un’invasata woke prima della nascita della cultura woke. O quella dell’adorato nipote Elio, che da una concreta famiglia padana, ricca e dedita agli affari, se ne esce con il sogno di diventare uno scrittore, per troppa sensibilità o per mancanza di altri bisogni, e che si suicida prima di misurarsi con qualunque desiderio, realizzabile o no. L’unica persona davvero amata da Ettore, che però lui sostituirà tranquillamente con il nipote successivo, Filippo.
C’è il figlio Carlo, incapace in qualsiasi cosa, mai amato dal padre. Ma si può non amare un figlio? Ettore Manfredini ne ha avuti quattro, di figli, ma forse non ne ha davvero amato nessuno. Né Carlo il nemico, né Enrica la perfetta, quella che salva l’azienda e fa sempre tutto giusto, né Edvige la suora, che scompare in convento, né Ester la polemica, che muore in carcere. Ettore non ha mai amato nemmeno sua moglie Marida, l’ha semplicemente derubata e poi lasciata lì, a vivere nelle sue ricchezze come se fossero di qualcun altro.
E qui la piccola storia dei Manfredini si incrocia con la grande Storia, perché Marida è la figlia dei Teglio, famiglia ebrea, che durante la fuga affida ai Manfredini il mattatoio kosher, in attesa di tornare e riprenderselo. Ma saranno proprio loro a denunciarli e a farli deportare. E il mattatoio diventerà un’industria di carne di maiale.
Una storia padana, di un Fois ormai bolognese quanto sardo, che conosce la pianura e le sue luci sciroppose, opache, umide e dense. Un romanzo malinconico, perché la «concentrazione furiosa che è morire» la conosceremo tutti, lo sappiamo, e un po’ l’abbiamo anche già sperimentata ogni volta che qualcuno che amavamo se ne è andato.

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