Cultura
19 settembre, 2025La tragedia, il processo ingiusto, la detenzione. Uno dei calciatori libici condannati per la strage di Ferragosto racconta la sua storia in un libro edito da Sellerio. E ora potrebbe essere coinvolto in un controverso accordo tra il governo e Tripoli
Nei suoi dieci anni di detenzione in Italia, Alaa Faraj non ha mai voluto che i suoi genitori andassero a trovarlo dalla Libia. «Se voi venite qua io mi ammazzo», ha detto al telefono a suo fratello Ahmeida. Si vergognava. Non sopportava l’idea che lo vedessero da carcerato, nonostante la coscienza limpida, l’amore per la famiglia e la nostalgia che bruciava come la marmitta della nave, la notte in cui gli è cambiata la vita.
Alaa Faraj è uno dei ragazzi libici condannati per la “strage di Ferragosto”, in cui nel 2015 sono morte 49 persone. La Corte d’Appello di Messina, pur rigettando la revisione del processo, li ha definiti «l’ultima ruota di un mostruoso ingranaggio» e «moralmente non imputabili». Eppure, si trovano a scontare trent’anni, vittime di un meccanismo più complesso che la legge e la politica non hanno gli strumenti e la volontà di affrontare. I veri trafficanti non salgono sulle barche, usano i passeggeri nordafricani, che vengono scambiati per membri dell’equipaggio. Intanto, subsahariani e bengalesi vengono ammassati nella stiva, nei punti più invisibili e pericolosi. Mentre morivano, Alaa non si accorgeva di nulla, stava male, vomitava, sperava che la traversata finisse il prima possibile.
E invece dopo dieci anni continua la sua odissea. E ha deciso di raccontarla. Grazie all’incontro con Alessandra Sciurba, docente all’Università di Palermo, ha trasformato un toccante carteggio in un libro, “Perché ero ragazzo” (Sellerio). «Io e Alaa ci siamo conosciuti in carcere, durante dei laboratori. Una volta conclusi, non potevamo più vederci, così abbiamo iniziato a scambiarci delle lettere. Da subito ho pensato che fossero preziose, per i contenuti e per la lingua», racconta Sciurba. Alaa scrive in un italiano imparato in carcere, forbito, ma fatto anche di imperfezioni poetiche. «Stelle luminanti», «rimango speranzioso», «ringhia difensiva», «la biblioteca fascinante e mesteriosa». Piccoli squarci nel mondo interiore di un ragazzo che ha formato parte della sua identità in Italia, dietro le sbarre, sui libri e nelle aule di tribunale. Con la scrittura chiede giustizia e ha trovato un po’ di pace: «Alla fine di una lettera mi scrive: “Ale, ma cosa mi stai facendo fare? Dove mi stai facendo arrivare?” È stato un percorso difficile per lui, ma terapeutico. Scrivere lo ha aiutato a mettere ordine nel dolore».
Inizia tutto a Bengasi, studiava ingegneria, giocava a calcio, era pieno di sogni, ma nel 2015 la guerra civile lo ha spinto a cercare un futuro altrove. Insieme a due amici, Abied e Tarek, ha preso la strada del mare, la più pericolosa. Nel racconto emerge soprattutto il senso di colpa verso i familiari, ignari di tutto, e l’attaccamento ai due compagni di viaggio. Decide di partire perché non voleva lasciarli all’ultimo momento, perché li teneva insieme un legame che si può avere solo a vent’anni. Perché era ragazzo. Da lì in poi tutto si incrina, la storia si sdoppia. La sua verità, contro le incongruenze di un processo che si regge su testimonianze raccolte a poche ore dallo sbarco, con errori di traduzione, riconoscimenti sommari e prove contraddittorie. «Questo libro», racconta l’avvocata Cinzia Pecoraro, «può raggiungere chi era a bordo, chi sa, chi magari ha raccontato le cose in modo impreciso perché sotto pressione, o perché non capiva. Più persone lo leggeranno, più possibilità avremo di portare elementi nuovi».
«Alaa ha costruito una rete», prosegue Alessandra Sciurba, «la famiglia, i suoi amici, chi ha perso la vita quel 15 agosto, a cui non smette mai di pensare, e le persone che hanno creduto alla sua innocenza». Una comunità che potrebbe abbracciarlo a Palermo, il 29 settembre, sul sagrato della Cattedrale, dove è prevista la presentazione pubblica del libro. Lì — se gli sarà concesso di partecipare — per la prima volta dopo dieci anni, li guarderà tutti negli occhi. Non l’ha mai vista la Cattedrale, ma la riconoscerà subito, esperto com’è di storia dell’arte. «Ha studiato al liceo artistico e si è appassionato al Rinascimento. Il suo sogno è visitare Firenze. E farlo da uomo libero», aggiunge Sciurba. Non è certo che il destino glielo consentirà. Un nuovo sviluppo rischia di sovrapporsi alla storia raccontata nel libro e di cambiarne, ancora una volta, il corso. L’11 settembre è stato ratificato dal Senato e pubblicato in Gazzetta Ufficiale un accordo tra Italia e Libia sul trasferimento dei detenuti. Riguarda tutti i cittadini libici condannati in Italia, ma il riferimento più immediato è proprio ai condannati per la strage di Ferragosto. L’espulsione potrà avvenire anche senza il consenso dell’interessato, se previsto dalla sentenza di condanna. E nel caso di Alaa, l’espulsione c’è. Resta prevista la possibilità di chiedere la revisione e continuare il processo anche in caso di rimpatrio. Ma nella pratica, tra difficoltà logistiche e dubbi legittimi sulla condizione carceraria e il rispetto dello Stato di diritto in un Paese come la Libia, proseguire la battaglia legale diventerebbe molto più difficile.
«Siamo ancora in tempo», si legge nella conclusione del libro. Dopotutto, Alaa è ancora un ragazzo. Anche se la vita lo ha costretto a crescere in fretta, a fare i conti con il dolore, con la solitudine che durante l’isolamento per il Covid lo ha spinto a pensare al suicidio. Si è fermato quando le è comparso in mente il viso di sua madre. Presto potrà tornare a vederla, i suoi familiari adesso possono andare a trovarlo. Lo ha convinto Alessandra Sciurba: «Gli ho detto: “Il figlio detenuto, ok, non lo dovevano conoscere, ma il figlio scrittore sì che lo possono rivedere”, gli si è spalancato un sorriso». Alaa è ancora un ragazzo, ma non si vergogna più.
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