Cultura
2 settembre, 2025L'enfant terrible del cinema francese, peraltro non nuovo agli adattamenti, si accosta a “Lo straniero” di Albert Camus con infinito rispetto: senza inutili modernizzazioni, ma con la sensibilità postcoloniale dei nostri giorni
Il dissacratore e il monumento. Il primo è François Ozon. Il secondo è “Lo straniero” di Albert Camus, uno dei capolavori del '900 più letti nel mondo. Era difficile immaginare due universi e due autori più lontani. Ma stavolta l'enfant terrible del cinema francese, peraltro non nuovo agli adattamenti, si accosta al testo con infinito rispetto. E le idee chiare, forse fin troppo chiare, sulla lettura che vuole darne. Girandolo come se fosse stato fatto negli anni Quaranta, senza inutili modernizzazioni. Ma con la sensibilità postcoloniale dei nostri giorni. Anche perché per i francesi, di qualsiasi origine, l'Algeria è una ferita ancora aperta.
Bianco e nero dunque. Un sinistro cinegiornale anni '30 a introdurre le immagini di Algeri, “rifiorita grazie alla dominazione francese”. Un lungo prologo che ci introduce non solo alla figura straniata di Meursault (sullo schermo Benjamin Voisin) ma alla vita nelle colonie. Gli algerini di qua, i francesi di là, le sale cinematografiche sono “proibite agli indigeni”, nel film l'unica relazione mista, si fa per dire, è quella tra il losco vicino di Meursault (l'impagabile Pierre Lottin di “Sotto le foglie”) e la sua amante araba, che probabilmente sfrutta e certamente picchia. Violenza da cui germina il delitto assurdo che è il centro di tutto.
Anche se “L'étranger” deve il suo titolo e la sua fama a un sentimento molto più complesso e ancora perfettamente contemporaneo che Ozon traduce in immagini con studiata efficacia. Un sentimento che si radica in molte direzioni diverse e apparentemente contraddittorie. Nell'indifferenza con cui il giovane impiegato accoglie la morte di sua madre, turbando e indignando anche gli altri anziani residenti nell'ospizio in cui la donna viveva (le scene della veglia funebre, col vecchio arabo che fissa stupefatto il giovane francese, sono fra le più belle in assoluto). Nella torpida sensualità che governa la relazione felice ma distratta del protagonista con la bella Marie (Rebecca Marder), la donna che un giorno, chissà, potrebbe perfino sposare, “tanto non fa nessuna differenza”. Insomma in quella gabbia di sensualità e rassegnazione, indifferenza e risentimento, se non rivolta, che esploderà prima nel delitto, poi nell'inattesa maturazione di Meursault in carcere.
Con omaggi sparsi a Bresson (le mani che si intrecciano fra le sbarre come in “Pickpocket”, una delle scene più citate nella storia del cinema), echi da Pasolini (il sogno del protagonista evoca “Accattone” e “Teorema”). E momenti ora ispirati ora meno, anche se è difficile giudicare a caldo un lavoro così arduo. Il meglio è nell'immediatezza con cui Ozon evoca la fascinazione/repulsione che lega coloni e colonizzati (l'ascella del giovane arabo come un richiamo intollerabile, un attimo prima dello sparo). O in certe trovate preziose come quella scena comica e insieme sinistra con Fernandel che i due giovani fidanzati vedono al cinema (il film, popolarissimo al'epoca, è “Le Schpountz” di Marcel Pagnol, e per chi non se ne ricordasse Fernandel era per i francesi un po' quel che è stato per noi Totò).
In tempi diversi, il classico film “da festival”, infatti Ozon, malgrado i suoi innumerevoli lavori e i tanti successi lamenta le difficoltà incontrate per convincere i produttori a finanziarlo. Oggi, una specie di mosca bianca.
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