Cultura
4 settembre, 2025Torna al cinema il remake del cult anni ’90 “La guerra dei Roses”. “È la fiaba-avvertimento su tutto ciò che non bisognerebbe fare per far durare un matrimonio", dice la protagonista: “La consiglio la prima notte di nozze”
Il suo idolo è sempre stata Glenn Close, per ironia della sorte è riuscita a sottrarle l’Oscar. Era il 2019 e l’attrice britannica Olivia Colman era candidata per “La Favorita”, vinse battendo Close nominata per “The Wife” e le dedicò parte del discorso di ringraziamento: «Sei stata il mio mito per tanto tempo, non volevo andasse così». Da allora la carriera di Colman non ha subito battute di arresto, ha vinto l’Emmy per la sua Elisabetta II nella terza e quarta stagione della serie “The Crown”, è stata l’arcigna matrigna della serie Prime Video “Fleabag” e la protagonista di “La figlia oscura”, per cui confidò di essere grande ammiratrice della Ferrante. In attesa di ritrovarla nella nuova miniserie tratta da “Orgoglio e pregiudizio”, torna ora al cinema con “I Roses”, remake del cult “La guerra dei Roses”, firmato da Danny DeVito con Michael Douglas e Kathleen Turner. Interpreta una chef che di colpo diventa celebre suo malgrado, mentre il marito archistar (Benedict Cumberbatch) perde il lavoro. Gli equilibri della famiglia si rovesciano e il matrimonio entra in una crisi nera fatta di risentimento e competizione. Dal cinema alla realtà Colman, 51 anni, è sposata da oltre venti con Ed Sinclair, sceneggiatore e produttore, con cui vive insieme ai loro tre figli nelle campagne del Norfolk.
Il segreto per un matrimonio, se non felice, quanto meno non disastroso?
«Non tenere conto degli errori. Non è una mia perla di saggezza purtroppo, ma del nostro parroco, lo disse il giorno del nostro matrimonio. È passato tanto tempo, ma lo ritengo tuttora un consiglio saggio, per i matrimoni come per qualsiasi altro tipo di legame e rapporto».
È anche il messaggio di questo film?
«Essere gentili e ricordarsi di dire “grazie” non fa male a nessuno, se i due protagonisti lo avessero tenuto a mente forse non sarebbero finiti nel modo rovinoso che vedrete. L’umorismo aiuta, ridere fa bene da soli figurarsi in coppia. Così come aiuta tenere a mente che l’amore reciproco deve restare la priorità su tutto il resto. Ora che ci penso, questo potrebbe diventare un film da prima notte di nozze: una fiaba-avvertimento su cosa non fare per far durare un matrimonio».
È solo un caso che nel film le cose iniziano a franare proprio quando è la moglie ad avere successo?
«Non è la prima a fare questa osservazione, eppure mi rende triste, perché nessuno di noi sul set l’ha mai vista in termini di gender. Il fatto che venga spontaneo pensare che se una donna sceglie la carriera un matrimonio automaticamente crolli è segno di quanto lavoro c’è ancora da fare. E da raccontare, per questo con Benedict nel film abbiamo voluto mostrare come i due coniugi facciano di fatto i turni per gestire la famiglia. Va detto chiaro che nel 2025 non deve esserci più nessun problema se sono le donne a voler fare - o a non voler fare - le capofamiglia. Senza che siano più costrette a decidere tra l’affermazione di sé stesse sul lavoro e la cura della famiglia».
Com’è stato recitare con Cumberbatch?
«È stato dolce e super gentile con me, anche quando in scena volavano insulti. Eravamo amici e incredibilmente dopo questo film lo siamo rimasti. Non era scontato».
Le scene di reciproche cattiverie e vendette sono state liberatorie?
«Assolutamente catartiche. Poter gridare e piangere tutto il giorno e sfogare ogni traccia di rabbia ed essere pure pagati per questo è un bel privilegio. Ci si sveglia meglio il giorno dopo, è una terapia che consiglio a tutti. Specie con accanto un attore che stimi e con cui desideri lavorare da tanto, com’è stato per me Benedict».
Non è la prima volta che la vediamo compiere dispetti e atti di vendetta - in “Cattiverie a domicilio” era una hater epistolare - come sceglie il limite da stabilire?
«Non mi pongo neanche il problema. Quando recitavo nella sitcom “Peep Show” c’era una scena in cui cucinavano un cane, ovviamente non era un cane vero, ma si chiamava Mamma. La forza della commedia nera sta nel fatto che c’era qualcosa di terribilmente divertente nel dirsi: “Ehi, ma stiamo mangiando Mamma”».
Dice?
«È una cosa stupida e per molti anche esagerata, ma a me tutto ciò che è scorretto fa da sempre irrimediabilmente ridere».
Si diverte di più a interpretare commedie o drammi?
«La commedia mi fa potenzialmente più paura, perché è molto più seria di una tragedia. Va tutto ben congegnato, i tempi sono fondamentali, e non bisogna mai dimenticare il realismo di quello che si sta raccontando. La scrittura, quando è brillante come nel caso de “I Roses”, aiuta. Ad ogni modo non c’è cosa che preferisca più di un mix esplosivo tra situazioni divertenti e tristi nello stesso film».
Ha messo qualcosa del vecchio “La guerra dei Roses” nel suo personaggio?
«Non molto, a dire il vero. Abbiamo molto amato quel film ancorato agli anni Novanta, ne siamo tuttora grandi fan, ma abbiamo voluto distaccarcene un po’, puntando tutto sull’idea di una coppia innamorata che si fa la guerra e soffermandoci nel raccontare con ironia il loro punto di rottura e non ritorno».
Se li avesse come vicini, che consiglio darebbe ai protagonisti del film?
«Suggerirei caldamente una tata, e poi di ricordarsi di dirsi a vicenda: “Ti amo e stimo il tuo lavoro, necessario e bello quanto il mio”. Poi consiglierei di fare un respiro profondo e ricordarsi del perché si sono scelti e innamorati. Funziona, garantito».

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