Cultura
6 settembre, 2025Quello dell'impegno civile. Quello che esplora la Storia. Quello delle invenzioni lessicali. Lo scrittore lettore di altri scrittori. Ripercorriamo l'opera del grande autore. Oltre Montalbano
Era un uomo così generoso di sé che avergli fatto, in diverse circostanze, qualche domanda non offre nessun particolare credito. Tuttavia, erano spesso sbalorditive le risposte. Per spiegarmi come avesse inventato Vigàta senza accorgersene, in un pomeriggio dalla luce estiva, Andrea Camilleri chiuse gli scuri del suo studiolo e – praticamente al buio, in una nuvola di fumo – mi illustrò per via ariostesca come si genera un luogo che non esiste. E come, mentalmente, se ne guadagna una mappatura: al punto di sapere dove svolta Montalbano, a quale angolo di strada.
Ma la risposta forse più bella che ho avuto la fortuna di raccogliere dalla sua voce arrochita fu quando gli chiesi, a proposito di un libro di memorie intitolato “Certi momenti”, perché avesse mescolato senza gerarchie i ritratti e i ricordi di figure illustri (Croce, Vittorini, Gadda, Pasolini) e le persone cosiddette anonime: zii, compagni di scuola, amici. Tipo Minicu, un narratore orale, istintivo che, senza aver letto un solo libro, sembrava essere più fantasioso di tutti gli scrittori del mondo. «Nessunissima gerarchia», mi spiegò. «Non conta che posto occupava nella società chi ha detto una frase o compiuto un gesto, l’importante è che proprio quella frase, quel gesto ti sono entrati dentro e hanno in qualche modo contribuito a farti essere quello che sei, a farti pensare quello che prima non pensavi».
“Farti pensare quello che prima non pensavi” mi pare che sia stato peraltro un suo impegno pluridecennale. Tanto accadeva ai suoi allievi all’Accademia d’arte drammatica, diventati in molti casi artisti noti, tanto a chi lo ha seguito, letto e ascoltato anche oltre le avventure di Montalbano. L’altro Camilleri, verrebbe da dire: quello di testardo impegno civile, bene esplorato da un numero monografico di MicroMega intitolato “Compagno Camilleri”; e quello che esplorava la storia con perizia di archivista sghembo ma creativo («Non ho testa di storico», diceva, né grande confidenza con carte e documenti). Era tuttavia lui stesso a porre in cima alla sua produzione i romanzi storici come “Il re di Girgenti”: un manifesto della sua passione politica e libertaria, lo definisce l’editore storico, Sellerio. C’è l’Agrigento delle sue origini, in un Settecento prerivoluzionario che spinge i cittadini in rivolta a eleggere un re contadino. Dove la fonte non è data, Camilleri con l’arbitrio del fabulatore se la inventa. Sperimentazione della apocrifia, l’ha definita Salvatore Silvano Nigro, che richiama il modello manzoniano: di quel Manzoni “falsario” «che ha introdotto nella letteratura italiana il manoscritto ritrovato di un Anonimo d’invenzione». Leggere o rileggere “Il re di Girgenti” consente di starsene a mollo nella sua lingua, il vigatese o “camillerese”, con le invenzioni lessicali che la rendono una sorta di enciclopedico e fantasioso idioletto, ma soprattutto di accostare in purezza la debordante capacità di aggrovigliare e sgrovigliare storie e storielle, di ramificarle in una miriade di smaglianti ritratti. Un bassorilievo animato e gremito, facce e faccette, facciuzze e faccioni: gente a cui Camilleri riesce a offrire un’anima tragicomica.
«La verità è sempre rivoluzionaria», è il grido che accende le pagine di questa leggenda eroico-poetica punteggiata di rimandi, echi, omaggi: Nigro ci trova Victor Hugo e Giovanni Verga. Su quest’ultimo, in occasione di una delle tante lauree honoris causa, fece una splendida riflessione: prendendo “Mastro-don Gesualdo” a capofila di un filone narrativo «non marginale della nostra letteratura, quello cioè che s'incentra essenzialmente sui rapporti complessi e problematici tra padri e figli, o, più estesamente, sull'inevitabile contrasto generazionale tra vecchi e giovani»: il personaggio verghiano, abbarbicato idealmente alla “roba” che ha amato gelosamente, «muore consapevole che tutto il frutto del suo lavoro andrà disperso convinto com’è dell'assenza di un erede che dimostri le sue stesse doti, che sia alla sua altezza». Così il Camilleri iperlettore tira un filo che da quel romanzo che quasi chiude l’Ottocento arriva a Tozzi, a Deledda e al Pirandello di un libro come “I vecchi e i giovani”.
Va ritrovato questo Camilleri lettore di altri scrittori, ricostruttore di vicende anche minime, spesso al limite del grottesco: sulle ceneri di Pirandello costruisce un pezzo di bravura che apre “Esercizi di memoria”; e quello che considero uno dei suoi libri più felici (e meno noti), “Biografia del figlio cambiato”, è un eccentrico racconto che pare fatto a voce sulla vita – più che inquieta e dolente – dell’autore dei “Sei personaggi”. Sul rapporto aspro con il padre che segnò l’esistenza del suo geniale conterraneo, Camilleri costruisce un affondo nell’inesauribile tormento di un uomo che trattava sempre male sé stesso. Dietro quel sorriso «ironico o sardonico» sfoderato in parecchie occasioni, c’era la smorfia di chi ha pagato un prezzo altissimo alla propria creatività e al proprio talento. E Camilleri poteva aggiungere a questa verità conquistata con l’immaginazione e l’immedesimazione la testimonianza quasi surreale di un incontro diretto con Pirandello. Un pomeriggio di giugno del 1935: Nené ha dieci anni. Qualcuno suona alla porta di casa, a Porto Empedocle, nell’ora più calda, vestito da ammiraglio. La feluca, la mantellina, lo spadino e «soprattutto una gran quantità di ori su per le maniche». Amico della nonna, il grande scrittore era lì per farle visita e abbracciarla. Il futuro scrittore rimase a bocca aperta, capendo forse un po’ in ritardo chi fosse l’ammiraglio ossequioso.
L’altro Camilleri è anche questo patrimonio di storie incredibili e di incontri inaspettati, e con esiti spiazzanti. Come quello con Stefano D’Arrigo, l’autore del romanzo monstrum “Horcynus Orca”, che Camilleri considerava una delle vette più alte della letteratura novecentesca. «Era di bassa statura, magro, il volto molto segnato, un modo di muoversi e di parlare nervoso, come se qualcosa continuamente lo disturbasse».
All’uscita del romanzo “Un filo di fumo”, Camilleri gliene portò una copia con dedica. D’Arrigo la sfogliò davanti all’autore: «Arrivato verso la fine, chiuse il libro di scatto, mi guardò con occhi fiammeggianti e puntandomi un dito contro esclamò: “Ma alla fine c’è un glossario!”». L’autore, intimidito, confermò. «La nostra amicizia finisce qui!» fu la risposta di D’Arrigo.


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