Il punto più basso della Serie A è stato prendere una lezione dagli ultras

La gestione da parte della Lega dopo la morte del fisioterapista del Lecce, Graziano Fiorita, è stata disastrosa. Tanto che a uscirne vincitori sono stati quelli che cantano “Devi morire”

Nel codice non scritto del mondo ultras ci sono pochi termini che hanno un valore più forte di tutti gli altri. Quattro, massimo cinque capisaldi che sono i punti cardinali di chi passa le domeniche tra Autogrill, autostrade e curve degli stadi italiani: pioggia, neve, vento, freddo o caldo non importa. Tra questi, c’è la parola rispetto. In questi giorni, ha tenuto banco il caso della morte improvvisa del fisioterapista del Lecce, Graziano Fiorita. Un malore lo ha portato via alla sua famiglia e al club salentino a poche ore dal match che la squadra di Marco Giampaolo avrebbe dovuto giocare con l’Atalanta. Un lutto che la lega di Serie A non ha saputo affrontare con la delicatezza che si conviene in questi casi: per modi e per tempistiche. Colpa di un calendario troppo affollato, della mancanza di individuare delle possibili date per incastrare l’eventuale recupero di un Atalanta-Lecce qualunque. Per questo, trovato lo slot televisivo, la partita è stata posticipata soltanto di qualche ora, e non rinviata come richiesto dalla società pugliese. Al dolore, quindi si è aggiunta la mancanza di rispetto, che il club ha condannato con un duro comunicato, prima, e con una protesta vera in campo: durante la partita “dei valori calpestati” – così l’ha definita la società giallorossa -, Baschirotto e compagni sono scesi in campo con un’anonima maglia bianca, senza loghi e senza sponsor. Al posto dello stemma del club un nastro simbolo del lutto, sul petto la scritta: “Nessun valore, nessun colore”.

 

In questo clima, a uscirne vincitori in qualche modo sono stati gli ultras. Sembra un paradosso, ma è così. Quelli che, tra le altre cose, scandiscono nitidamente negli stadi frasi come “De-vi mo-ri-re”, quelli che nel 2025 hanno ancora problemi con il razzismo e che si scontrano prima della partita per rivendicare una presunta supremazia territoriale. Eppure, stavolta, la lezione non l’hanno ricevuta ma l’hanno data. Spesso si parla di “mentalità ultras” e questa ha un grande rispetto per la morte, indipendentemente dai cori. Come detto, è un codice, ogni associazione organizzata o spontanea ha il suo, in fondo.

 

Per evitare uno 0-3 a tavolino che avrebbe compromesso la corsa salvezza, il Lecce quindi si è presentato. Il risultato ha sorriso alla squadra, che è riuscita a strappare un punto sul campo della terza in classifica dopo l’1-1. Una scelta onorevole, quella di presentarsi al Gewiss Stadium, che ha trovato la solidarietà degli ultras atalantini, i primi a esprimere vicinanza al club. Non solo per la morte di uno di uno degli avversari, ma anche per la grave mancanza di rispetto subìta dall’ente organizzatore del torneo. "La morte di Graziano Fiorita dimostra ancora una volta la mancanza di rispetto per un uomo, un padre, marito e non per ultimo professionista da parte di questo contorto mondo del calcio – si legge nel comunicato diffuso dal gruppo organizzato del tifo bergamasco –. Un calcio sempre più compresso e vincolato da regole, che chiede a una squadra e ai propri tifosi di passare oltre il dolore e scendere in campo. La nostra storia non lo permette, dal 10/01/93 (perse la vita Celestino Colombi, ndr), la morte è uguale per tutti e merita il nostro rispetto. Se Atalanta-Lecce si dovesse giocare domenica 27 aprile, non attaccheremo striscioni, non sventoleremo bandiere e tanto meno gestiremo il tifo in Curva Sud. Rispettiamo il dolore del Lecce, dei suoi tifosi e di tutta la famiglia Fiorita". 

La storia si è ripetuta una settimana più tardi. A far visita al Lecce, la capolista Napoli. Nonostante i classici tafferugli che hanno condizionato il prepartita, anche la curva partenopea ha dedicato a Fiorita un tributo che la Lega non è stata in grado di concedere: uno striscione e qualche coro. Nel linguaggio ultras significano tanto, anche dopo gli scontri.

 

Lecce-Napoli, però, è stata soprattutto la vetrina dello sfogo di chi quel dolore lo ha vissuto, di chi si è sentito calpestato. Di chi non vuole essere considerato di Serie B, sia sul campo, sia per quanto riguarda i propri diritti. Quello che si è visto a Lecce, sabato 3 maggio, non è stata una protesta del tifo, ma una vera contestazione di un sistema che è arrivato a mettere le persone dietro il profitto. 

 

Ecco quindi che la frustrazione dell’essere umano viene espressa con il codice dell’hooligan: a partire dal rumore. Unico vero segnale di protesta che ci è concesso quando vogliamo esprimere sofferenza. Se chi perde un caro urla il proprio dolore, gli ultras usano il modo che conoscono meglio per esprimere lo stesso sentimento. Prima, i fischi assordanti durante l’Inno della Serie A. L’unico modo per farsi sentire in quel momento, mentre molti sostenitori davano le spalle al terreno di gioco.

 

Poi, il lancio di torce e petardi dalla Curva Nord, a partire dal sesto minuto di gioco, l’intenzione dichiarata di interrompere il gioco è la manifestazione della volontà di essere visti, ascoltati, per impedire che l’errore di gestione venga ripetuto ancora. Di non essere più posticipati, di non poter rinviare il dolore. Un sentimento condiviso e abbracciato da tutto lo stadio, incluso dalla fazione ospite. Non esiste rivalità se si tratta di condannare lo show e il denaro, quando calpestano la dignità di una persona, in cui poi si identifica non solo una squadra, ma una città intera. Un concetto espresso alla maniera degli ultras, con uno striscione, poche parole ma che vanno dritte al punto: “Il dio denaro decide, la morte si irride. Sistema calcio puzzi di marcio”. E ancora: “Il sistema di oltraggia, Lecce ti omaggia. Ciao Graziano”. 

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