L’egemonia degli Usa resiste e non basta ?a minarla questo presidente. Perché si fonda su un dominio commerciale e militare molto più grande

Un equivoco di portata decisiva: scambiare la politica per caratura strategica, confondere il leader con la cifra strutturale della nazione che guida. Negli ultimi mesi numerosi analisti si sono dilettati nel sentenziare il netto depotenziamento degli Stati Uniti, provocato dalla percepita insipienza di Donald Trump. Quasi bastasse un politico a modificare la traiettoria di un impero. Quasi fosse sufficiente un presidente a stravolgere la postura di una superpotenza, nel bene o nel male.

Fraintendimento grave in assoluto, particolarmente grossolano se applicato all’America. Non solo perché, per volontà dei padri fondatori, Oltreoceano alla politica è riconosciuto un ruolo assai marginale - notoriamente negli Stati Uniti si vota di martedì, ovvero nel giorno dedicato alle attività di mercato e pensato per tenere gli elettori lontani dalle urne. Ancora più rilevante, la superpotenza conserva intatte le caratteristiche strutturali che l’hanno resa egemone mondiale.

Dal dominio dei mari alla straordinaria capacità di assorbimento delle merci altrui, fino all’invincibilità del dollaro. Intonsa supremazia che oggi consente agli apparati federali - Pentagono, dipartimento di Stato, Cia ecc. - di supplire con la loro ingerenza alla volontà trumpiana di trasformare gli Stati Uniti in una nazione convenzionale. Stato profondo, nella spregiativa dizione utilizzata dalla Casa Bianca, capace di sopravvivere all’attuale fatica imperiale e di custodire il primato globale di Washington. Burocrati della politica estera, impegnati a contenere la Cina nell’Asia-Pacifico, a soffocare la Russia sul fronte europeo e a colpire il tentativo della Germania di affrancarsi dal ruolo di semplice satellite. Immuni a qualsiasi ingerenza della politica.

Da sempre la condizione egemonica grava sulla nazione originaria che creò l’impero. Ogni superpotenza necessita di importare merci in grande quantità, così da rendere planetaria la propria moneta, e di accogliere esseri umani, così da mantenere giovane e violenta la propria popolazione, chiamata spesso a fare la guerra.

Di qui l’immenso deficit commerciale degli Stati Uniti (previsto intorno agli 800 miliardi di dollari nel 2017) e la corposa percentuale di popolazione immigrata (il 14 per cento del totale). Con inevitabili sconvolgimenti nel cuore dell’impero, giacché l’arrivo in massa di merci straniere conduce fuori mercato interi settori dell’economia nazionale e l’approdo di milioni di immigrati innesca l’identitario risentimento del ceppo etnico dominante, mentre lo stato di belligeranza semipermanente incombe sull’opinione pubblica.

Editoriale
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Così fu ai tempi dell’Antica Roma. Al termine della terza guerra punica, che decretò l’Urbe quale unica superpotenza globale, si diffuse nella capitale una notevole depressione causata dalla convinzione che della propria superiorità beneficiassero soprattutto clientes e antagonisti. All’epoca i fratelli Gracchi si intestarono le istanze della popolazione, proponendo un rilancio dell’etnia romana e il perseguimento di un apatico isolamento.

Esattamente quanto sta accadendo negli Stati Uniti, un quarto di secolo dopo la fine della guerra fredda che trasformò Washington nell’unico egemone planetario, con Trump che sostiene il nativismo e un parziale isolazionismo. Ma oggi, come allora, la volontà dei leader non è in grado di estinguere l’impero. Specie negli Stati Uniti, dove alla solidità strutturale della nazione si unisce la sofisticatezza degli apparati, deputati a gestire la politica estera.

La Marina Usa domina incontrastata gli oceani e i mari del pianeta, unica ragione per cui esiste l’odierna globalizzazione. Mentre lo strapotere delle altre Forze armate, che nella percezione degli investitori internazionali rende impossibile un cambio di regime imposto dall’esterno, sostanzia il signoraggio del dollaro e mantiene impareggiata l’ampiezza del mercato domestico americano. Lo Stato profondo è perfettamente in grado di respingere i propositi anti-imperiali della Casa Bianca. Nella mercantilistica visione di Trump, Washington dovrebbe raggiungere un notevole surplus commerciale, lasciare che gli alleati si occupino unilateralmente della loro difesa e rinnegare il contenimento della Russia.

Il personaggio
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Se non fosse che, dall’alba del mandato, le agenzie federali ne influenzano largamente l’operato. Anzitutto attraverso il legame esistente tra burocrati e Congresso, unica istituzione incaricata di fissare il budget degli apparati, che sfugge al controllo del presidente. Quindi attraverso lo strumentale scandalo incentrato sui rapporti tra il Cremlino e membri dell’entourage trumpiano, pensato per screditare l’approccio della Casa Bianca e impedirle di aprire a Mosca. Ne è derivata l’imposizione di numerosi militari nelle posizioni chiave dell’attuale amministrazione, quasi una junta latinoamericana, con i generali James Mattis, H.R. McMaster e John Kelly rispettivamente alla guida del Pentagono, nel ruolo di consigliere per la Sicurezza nazionale e di capo gabinetto della Casa Bianca, di fatto il primo ministro del governo statunitense. Soprattutto ne è scaturita la conferma di una politica estera profondamente imperiale, in stridente contrasto con le promesse pronunciate da Trump in campagna elettorale.

A dispetto di qualsiasi intesa immaginata con Putin, negli ultimi mesi Washington ha puntellato la Nato sul fronte orientale in funzione anti-russa e premuto sulla Germania affinché non scarrellasse verso oriente. Quindi ha confermato il contenimento della Cina, rifiutandosi di riconoscere la natura atomica del regime nordcoreano, che impedisce ai militari americani di giungere al confine con la Repubblica Popolare, e cercando di vincere l’India alla causa.

Al punto da minacciare ripetutamente, anche dopo l’ultima provocazione missilistica, Pyongyang di rappresaglia militare e fino a ribattezzare indopacifico il perno asiatico obamiano. Infine in Medio Oriente gli Stati Uniti hanno continuato ad agire per impedire che una potenza autoctona si trasformi nell’egemone regionale, perenne proposito della strategia d’Oltreoceano. In questa fase proprio la fusione tra consistenza strutturale e preminenza degli apparati mantiene la congiuntura geopolitica favorevole agli Stati Uniti.

La Cina teme la ritorsione commerciale degli americani, da cui dipende per il proprio export, ed è costretta a immaginare le vie della seta perché non ne può sfidare il dominio marittimo. La Russia non riesce neppure a spuntare la neutralità dell’Ucraina, nonostante il credito acquisito con l’intervento in Siria. La Germania è confitta tra i due nemici della guerra fredda, senza poter assurgere a egemone europeo. Mentre l’Iran, che pure è in ascesa tra le macerie del Medio Oriente, si prepara ad affrontare la controffensiva turca e saudita (oltre che statunitense). Elementi strategici che segnalano la persistenza egemonica e l’intatta aggressività della superpotenza, capace di superare l’insularità della politica e di stemperare la stanchezza della propria opinione pubblica. Attraverso il collaudato mestiere dello Stato profondo. Indipendentemente da Trump.

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