Gli aiutini di Palazzo Chigi non bastano più: nel 2011 il valore delle aziende di Berlusconi è sceso di 1,1 miliardi. Un flop dovuto a tante ragioni: dagli insuccessi delle reti Mediaset al declino politico del loro proprietario
di Luca Piana
7 novembre 2011
Fra i tanti numeri che angosciano Silvio Berlusconi ce n'è uno che lo riguarda personalmente. Se l'economia arranca, la disoccupazione aumenta, la Borsa di Milano va a picco e il Tesoro per vendere i titoli di Stato è costretto a pagare interessi sempre più alti, facendo correre il debito pubblico, sono problemi del presidente del Consiglio. Ma c'è un dato che lo tocca come imprenditore, suggerendo che i suoi affari non stiano andando benissimo. È il valore delle sue aziende, fotografato dalle quotazioni di Piazza Affari.
Alla fine dell'anno 2000, quando il centrosinistra era in pezzi e il politico Berlusconi si apprestava a entrare nel decennio dove avrebbe governato quasi di continuo, le partecipazioni di controllo della sua Fininvest nelle società quotate in Borsa - la corazzata delle televisioni Mediaset, la casa editrice Mondadori e il gruppo finanziario Mediolanum - valevano 11,06 miliardi di euro. Da allora è successo un po' di tutto. Nel mondo come in Italia. Lui ha vinto le elezioni politiche due volte, ha perso alleati come Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini, ma si è legato sempre più a Umberto Bossi e ha rastrellato i Responsabili. La Borsa è andata su e giù, soprattutto giù. Rispetto alla fine del 2010, come si vede dal grafico riportato a pagina 161, Piazza Affari ha perso nel complesso il 63,3 per cento. Il valore delle partecipazioni del premier, però, è diminuito ancora di più, per la precisione del 79,9 per cento. A fine ottobre, in pratica, si era ridotto a 2,22 miliardi di euro: un quinto di dieci anni fa.
La colpa è solo in parte degli ultimi sconquassi sui mercati. Per capire cosa stia divorando la fortuna borsistica del premier è utile fare alcuni passi indietro. Per vedere come, alle quotazioni delle aziende di Berlusconi la sua posizione politica abbia spesso giovato. Lo dimostra un esempio facile: l'anno 2003. All'epoca le truppe della maggioranza lavoravano in parlamento alla legge Gasparri, quella che regalò nuovi spazi di crescita commerciale a Mediaset, indebolendo i già inefficaci limiti anti-concentrazione nel mercato della pubblicità. Quell'anno il portafoglio delle partecipazioni del Cavaliere - che dal 2001 aveva preso non poche batoste, causa lo scoppio delle bolle speculative che in precedenza avevano gonfiato da un lato i titoli dei media e dall'altro Mediolanum, nella vana speranza di una fusione con Generali - aumentò di ben 1,6 miliardi, molto più della crescita registrata dalla Borsa.
Per un secondo esempio, basta invece fermarsi a fine 2007, quando il governo Prodi iniziò a frantumarsi e il ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi diventò solo una questione di tempo. Nei due anni successivi, gli investitori che puntarono sui titoli della scuderia Berlusconi fecero bene, perché questi andarono molto meglio del listino.
Al di là dei fattori generali, è proprio il periodo più recente a mostrare una nuova fase di debolezza per le quotazioni borsistiche di Berlusconi. Un periodo che inizia l'anno scorso, quando esplodono i dubbi sulla tenuta della maggioranza e il premier, a ogni voto di fiducia, si ritrova appeso alle contrattazioni "last minute" con i Responsabili. Quest'anno, nel periodo che va da gennaio a ottobre, il valore borsistico delle aziende del premier è diminuito di botto di 1,1 miliardi, o del 32,9 per cento. Nello stesso periodo, l'indice di riferimento del listino milanese, il Ftse-Mib, ha perso solo il 20,6 per cento.
L'andamento dei titoli delle sue società quotate sembrerebbe dire, dunque, che gli investitori scommettono sulla fine del predominio politico di Berlusconi o, quanto meno, sul fatto che nel prossimo futuro il premier non riuscirà a trarre vantaggi per sé come ha saputo fare in passato.
Al di là della Borsa, dove a volte giocano attese speculative che magari poi non si concretizzano, negli ultimi tempi i consueti fattori di forza delle aziende del gruppo Fininvest - i successi in libreria della Mondadori, la dittatura di Mediaset sulla pubblicità televisiva, la verve imprenditoriale dello storico partner di Mediolanum, Ennio Doris - sono oscurati da alcuni fattori negativi.
Non che la Fininvest, presieduta dalla figlia Marina, sia in crisi. Anzi. L'anno scorso i ricavi consolidati sono cresciuti da 5,6 a 5,9 miliardi di euro, mentre l'utile è solo leggermente diminuito, passando da 174 a 160 milioni. È vero che, per la prima volta dal 2001, la holding non ha distribuito dividendo: uno choc, probabilmente, per una famiglia che tra il 2002 e il 2009 ha incassato dalla sua capogruppo la bellezza di 1,45 miliardi di euro di dividendi, per tacere degli stipendi garantiti dalle cariche in azienda. Ma è probabile che la Fininvest si sia voluta semplicemente cautelare, anche alla luce del maxi-risarcimento ottenuto dalla Cir (società che controlla anche il Gruppo Espresso) per lo scandalo del lodo Mondadori, almeno in attesa della decisione definitiva della Cassazione.
A dispetto dei dati dell'ultimo bilancio Fininvest, però, sul gruppo le ombre non mancano. Ci sono le difficoltà della Mondadori, alle prese come tutti gli editori di giornali con la crisi della carta stampata. E ci sono i punti interrogativi relativi a Mediolanum, che nel bilancio dell'ultimo semestre (relativo a giugno 2011) ha fornito alcuni dettagli relativi a un complesso contenzioso con il Fisco capace, se non sarà disinnescato, di costarle decine di milioni.
I fronti sono due. Il primo riguarda l'Agenzia delle Entrate, che alla fine del 2010 ha quantificato in circa 86 milioni di euro un imponibile che Mediolanum Vita, una società del gruppo, avrebbe scorrettamente sottratto alla tassazione Ires e Irap nel 2005 e nel 2006. Ne è seguita una trafila di richieste di pagamento e di ricorsi dei quali, stando a quanto riportato nella semestrale, Mediolanum non può ancora prevedere gli esiti. Il secondo fronte riguarda invece un'ispezione che la Guardia di Finanza ha concluso il 28 febbraio 2011 in Banca Mediolanum, mettendo nel mirino i rapporti con le filiali irlandesi del gruppo. L'accusa, in questo caso, è di aver sottratto alla tassazione Ires e Irap un imponibile di circa 170 milioni di euro, mentre le sole sanzioni sulla mancata regolarizzazione dell'Iva nelle fatture emesse dai promotori finanziari della Banca arriverebbero a 64 milioni di euro. Difficile fare i calcoli su quello che sarà l'impatto se le conclusioni delle Fiamme Gialle verranno confermate, anche perché, pure in questo caso, Mediolanum sottolinea nella relazione semestrale la correttezza del proprio operato. Da allora, però, di comunicazioni ufficiali non ne sono state fatte più e, quindi, per vedere se ci sarà qualche novità, si aspetta il consiglio di mercoledì 9 novembre sui conti dei primi nove mesi dell'anno.
Il punto più delicato resta comunque l'andamento di Mediaset, per la quale si prevedono a fine 2011 ricavi e margini in diminuzione. In apparenza il gruppo televisivo riesce a suonarle regolarmente ai concorrenti. Alcuni canali digitali vanno bene, anche se lo sport a pagamento di Sky batte regolarmente quello di Mediaset Premium e nella top ten dei canali più visti si sono infilati stabilmente alcuni indipendenti, come Real Time e K2. Tra gennaio e luglio, stando ai dati raccolti dalla Nielsen e rielaborati in un recente osservatorio realizzato dalla società di consulenza Studio Frasi, le concessionarie del gruppo (Publitalia e Digitalia) hanno visto la loro raccolta pubblicitaria diminuire solo del 2,04 per cento, un arretramento lievissimo, se confrontato con quello della Rai (meno 11,26 per cento) e di Sky (meno 16,14 ). Questo ha garantito a Mediaset una quota del mercato pubblicitario televisivo del 62,8 per cento, in ulteriore crescita rispetto al 61 per cento dello stesso periodo del 2010.
Ci sono però altri dati che fanno riflettere. Il primo è che, tra canali digitali e tradizionali, Mediaset deve moltiplicare i propri sforzi per catturare meno spettatori. Il secondo è che la pubblicità sul digitale rende molto meno di quella sui vecchi canali. Il terzo è il confronto fra la raccolta della pubblicità e l'andamento dello share (la quota degli spettatori sull'audience complessiva), che va peggio per Mediaset (fra gennaio e luglio è sceso dal 37,8 al 36,7 per cento nel giorno medio) di quanto vada per la Rai (dal 41,9 per cento al 41,0). Il quarto dato è che la stagione televisiva autunnale, appena iniziata, non sembra aver portato quella riscossa che, nelle intenzioni del figlio Pier Silvio, avrebbe dovuto verificarsi. "Fa riflettere l'entusiasmo mostrato per il 20 per cento di share ottenuto dalla prima puntata dell'ultimo "Grande Fratello": una volta sarebbe stato un insuccesso, ora la rete ammiraglia Canale 5 si accontenta di uno share del 17 nel giorno medio", osserva Francesco Siliato, partner dello Studio Frasi. Scontate le previsioni più fosche: se Berlusconi non sarà più al governo, l'occhio di riguardo che la pubblicità sembra riservare al suo gruppo finirà.
Come reagirà Berlusconi alla congiuntura negativa? Il rischio è che continui a forzare la mano sul fronte del conflitto d'interessi. Lo ha mostrato con il tentativo di modificare la legge ereditaria in una direzione che gli avrebbe reso possibile, se avesse voluto, privilegiare i figli Marina e Pier Silvio rispetto a quelli avuti da Veronica Lario. E si sta ripetendo con il bando, che sembra fatto su misura per Mediaset, con il quale stanno per essere assegnate gratuitamente le preziosissime frequenze del digitale terrestre liberate dal ministero della Difesa e dalle emittenti locali.
Per fine novembre è previsto infatti che una commissione nominata in seno al ministero per lo Sviluppo Economico del fedelissimo Paolo Romani esprima un parere sulla base del quale sarà decisa la graduatoria degli assegnatari. Fatto curioso: per avere altre frequenze, gli operatori di telefonia mobile si sono impegnati da poco a versare allo Stato 3,95 miliardi di euro. Le opposizioni, così, avevano presentato una proposta normativa - bocciata per un soffio - che avrebbe imposto l'asta anche per quelle destinate alle televisioni. Non solo: un esperto del settore come Antonio Sassano, docente alla Sapienza, aveva proposto addirittura di lasciarle libere per garantire più margini di manovra ai futuri sviluppi del digitale. Macché: il governo ha preferito preparare un pacchetto straricco di frequenze, per favorire le tivù nazionali; il risultato è che dovrà toglierne a quelle locali, risarcendole con 240 milioni. L'ennesimo favore, dunque, di una lunga serie. Che oggi, tuttavia, non sembra più bastare a risollevare in Borsa le sorti del gruppo.