Confusione. Timore. Quasi rassegnazione. Sono questi gli umori che si raccolgono alla vigilia di un autunno che si profila difficile. L'economia internazionale risulta in frenata un po' ovunque. Si rivedono i numeri della crescita, tutti rigorosamente al ribasso. C'è odore di recessione e i mercati finanziari reagiscono con forti oscillazioni, prevalentemente con segno negativo. Nel grafico qui in pagina i numeri aggiornati ad agosto pubblicati dall'"Economist" dimostrano come solo i Paesi emergenti possano sorridere quest'anno, sia pure con qualche segnale di allarme anche lì.
L'America non andrà oltre il 2,3 per cento di espansione. Il motore europeo batte in testa. La Germania stacca tutti, ma perde colpi e il secondo trimestre è decisamente inferiore alle attese, l'indice Ifo di fiducia delle imprese tedesche rivela un po' di pessimismo per i prossimi mesi, preoccupa anzitutto il rallentamento delle esportazioni verso la Cina.
E l'Italia è in fondo. Tra i grandi Paesi dell'euro è quello che va peggio, nessuno parla di sviluppo superiore all'1 per cento, numero scritto nell'ultimo Bollettino della Banca d'Italia. Gli istituti di ricerca stanno pian piano rivedendo al ribasso le previsioni 2011 e 2012, condizionati sia dalla bufera mondiale sia dall'impatto che potrà avere la manovra Berlusconi-Tremonti che approda in questi giorni in Parlamento. Del resto sui provvedimenti non vi è alcuna certezza grazie anche alle spaccature all'interno della maggioranza di governo e alle resistenze diffuse nell'intervenire con riforme strutturali. La Cgil di Susanna Camusso ha già proclamato lo sciopero generale contro la manovra per il 6 settembre. "L'Espresso" ha chiesto a dieci economisti qualche idea forte per anticipare e battere la recessione. Eccole.
Alberto Bisin (New York University)
Tagliare i dipendenti pubblici
"Finché in Italia ci sarà un carico fiscale sopra il 45 per cento non c'è speranza di crescita. Bisogna arrivare al 35 per cento per liberare le forze spontanee del mercato e l'iniziativa privata. Non è facile perché servono interventi complicati che riducano il debito, l'altra faccia della medaglia. Perciò è necessario tagliare drasticamente la spesa nel settore pubblico, dove i salari dei dipendenti sono cresciuti in dieci anni del 15-20 per cento a confronto con quelli privati, ma va fatto in maniera mirata e non orizzontale, andando a toccare quelle realtà dove la produttività è bassissima. Per farlo dovremmo partire da un sistema di valutazione della produttività pubblica; non averlo oggi è una follia. Oltre a un aumento dell'età pensionabile, per ridurre la mole di debito serve anche un federalismo fiscale "duro e puro" che faccia pagare i servizi pubblici (sanità, scuola) e la politica locale a livello regionale senza gravare sulle casse di Stato e permetta ai cittadini di mandare a casa un'amministrazione inefficiente e costosa".
Tito Boeri (Università Bocconi)
Studenti in azienda
"Una riforma del percorso d'ingresso nel mercato del lavoro che parta dal contratto unico per la tutela progressiva dei dipendenti in modo da liberare il mercato da quel dualismo generazionale che lo frena, per dare più spazio ai giovani e valorizzare il capitale umano che si sta perdendo. Da affiancare a una rimodulazione delle carriere universitarie facendo in modo che alcune lauree triennali abbiano un contenuto professionalizzante e, tramite accordi con le aziende, consentire agli studenti di passare metà del tempo sui libri e metà a fare pratica: un apprendistato basato sul modello tedesco. Oltre a consentire una razionalizzazione degli atenei, permettendo alle sedi decentrate (in grado solo di attivare trienni) di sostenersi con minore difficoltà, innescherebbe un processo di controllo reciproco tra università e aziende nel verificare i contenuti formativi garantendo nel tempo capitale umano di alta qualità. Nel lungo periodo avrà un impatto positivo sulla crescita e nel breve, vista la ritrovata fiducia dei giovani nel futuro, stimolerebbe la ripresa dei consumi".
Mario Deaglio (Università di Torino)
Più energia e trasporti
"Prima di tutto bisogna creare le condizioni generali per la crescita: attuare una manovra che raccolga risorse finanziarie in eccesso rispetto a quelle che servono ad affrontare l'emergenza in Europa per poi ridistribuirle alle parti sociali sotto forma di sgravi fiscali. Ci sono però dei settori su cui bisogna intervenire direttamente e sono quelle strettoie che frenano da tempo la crescita: i trasporti e l'energia. Abbiamo un "costo della distanza" che è superiore a tutti i Paesi europei, per questo servono infrastrutture nuove e che siano autostrade o ferrovie a livello generale non importa. È un'anomalia che si traduce in minore efficienza e maggiori costi. Abbiamo anche un costo dell'elettricità sopra la media degli altri Paesi, partiamo dunque con un handicap notevole. Serve, insomma, una politica che favorisca gli investimenti energetici".
Gregorio De Felice (Intesa Sanpaolo)
Innovazione alla canadese
"Serve una svolta per la crescita in cui gli obiettivi per occupazione e investimenti devono essere rispettati, pena sanzioni, al pari di quelle per gli sforamenti su deficit e debito. Per le aziende italiane bisogna intervenire su tre leve. Innovazione: incentivare la ricerca in maniera permanente. Penso al modello canadese, dove 2/3 degli investimenti sono coperti dallo Stato, o olandese, che ne copre la metà. Dimensione: non ci si può accontentare di 48 milioni in tre anni per favorire le reti di impresa stanziati dal governo, servirebbero incentivi più decisi di defiscalizzazione degli utili per agevolare aggregazioni necessarie a soddisfare la mole di ordini, ad esempio dalla Cina. Internazionalizzazione: l'abrogazione dell'Ice, e l'attribuzione delle sue funzioni a più ministeri, non va nella direzione giusta; serve piuttosto un'unica regia per portare le imprese all'estero. Poi dobbiamo puntare su settori come la green economy, siamo tra i primi cinque Paesi per produzioni in risparmio energetico, e la meccanica, dove la crescita dimensionale rimane essenziale nel derby con la Germania".
Adriano Giannola (presidente Svimez)
Mezzogiorno più verde
"Il Mezzogiorno potrebbe essere un'occasione seria per rilanciare la crescita. Il Mediterraneo è al centro dei traffici commerciali internazionali, l'Italia è una piattaforma logistica e il Sud potrebbe diventare un hub per gli scambi tra Europa e Paesi emergenti come Cina e India attraverso, ad esempio, il potenziamento dell'asse Bari-Napoli dando forza al corridoio 8 che va verso i Balcani. Paghiamo anche uno scotto altissimo per il costo dell'energia. E il Sud è un'area ideale per lo sviluppo della green economy: i 40 miliardi di euro previsti per il nucleare potrebbero essere investiti in rinnovabili. Penso alla geotermia, risorsa non sfruttata lungo la sponda tirrenica (Lazio, Campania, Sicilia); servono solo 3 anni per la costruzione di una centrale. Non sfruttiamo nemmeno i combustibili fossili di cui disponiamo: potremmo estrarre il 15 per cento del nostro fabbisogno dalla Basilicata, dove c'è petrolio di buona qualità. Ma manca una visione politica e strategica".
Gian Maria Gros-Pietro (Luiss, Roma)
Stop al precariato
"Superare la polarizzazione tra posti di lavoro protetti a tempo indeterminato e assoluto precariato. Introducendo nel contratto a tempo indeterminato quella flessibilità che ci ha chiesto l'Europa smetterebbe di essere percepito dalle imprese come una sorta di trappola, con costi e ritorni non governabili. Rilanciare i contratti a tempo indeterminato, che immagino flessibilizzati secondo il modello tedesco, è indispensabile per investire in professionalità, una logica incompatibile con il precariato. Bisogna rendere conveniente collocare grandi investimenti ad alta intensità di capitale in Ìtalia: con l'accordo tra industriali e sindacati. C'è anche il ruolo di intermediazione della politica con il tessuto economico del Paese, che si traduce non solo in prelievi fiscali, ma anche in gestioni dirette di aziende pubbliche e a controllo pubblico. Tale intermediazione va molto oltre il 50 per cento del Pil: è uno dei principali ostacoli alla crescita. A cominciare dalle mancate privatizzazioni".
Daniele Marini (Fondazione Nord Est)
Incentivi a piccoli e medi
"È necessario fornire incentivi fiscali alle imprese per aggregarsi facendo consorzi e sistemi di filiera perché a soffrire di più la crisi sono state quelle di piccola dimensione che ora dovrebbero basarsi su una struttura più ampia e robusta. Siccome il ceto imprenditoriale è avverso alle aggregazioni, perché fortemente individualista, quella degli sgravi fiscali è l'unica leva sulla quale poter giocare. Dal lato dei lavoratori è fondamentale investire nella formazione continua attraverso l'uso dei fondi interprofessionali per aumentare le abilità del personale. Altro aspetto per lo sviluppo delle imprese sul territorio è la crescita delle infrastrutture materiali (strade, ferrovie), attraverso la liberalizzazione del trasporto pubblico regionale, ma soprattutto quelle immateriali con un investimento in banda larga e internet ad alta velocità".
Marcello Messori (Università Tor Vergata)
Produttività programmata
"Introdurre il principio della produttività programmata. Le parti sociali dovrebbero impegnarsi a realizzare certi incrementi della produttività del lavoro su base quinquennale e per aggregati omogenei di imprese. La dinamica delle remunerazioni dovrebbe essere subordinata a tali incrementi: se la crescita programmata della produttività fosse - per esempio - dell'8 per cento, quella dei salari reali potrebbe essere del 6 per cento. Le parti sociali, non solo sindacati e Confindustria, dovrebbero dunque programmare una crescita della produttività che colmi i ritardi accumulati dalle imprese italiane rispetto alla rivoluzione dell'Information and communication technology (Ict); ritardi che sono alla base della stagnante produttività dell'ultimo decennio. Tale accordo premierebbe le imprese che hanno effettivi potenziali di crescita e potrebbe evitare di erogare incentivi alle imprese che si sono rivelate incapaci di stare sul mercato. Ciò avrebbe considerevoli effetti positivi anche sul bilancio pubblico perché sfoltirebbe l'attuale inefficace pletora di incentivazioni".
Paolo Onofri (Università di Bologna)
Spingere al lavoro giovani e donne
"Portare nel mercato del lavoro chi è stato escluso: i giovani e le donne. Per aumentare l'offerta di lavoro femminile servono incentivi fiscali e contributivi da fornire sia alle famiglie, per consentire l'ingresso nel mercato, sia alle imprese, per incrementare la forza lavoro femminile. Com'è stato suggerito, misure da accompagnare a un aumento delle detrazioni per i carichi familiari sui figli e, al contrario, una diminuzione per le mogli a carico. La questione cruciale rimane quella dei giovani. Bisogna ridistribuire sulle fasce di età più elevate gli oneri della flessibilità che i giovani si sono sobbarcati finora per consentire alle imprese la mobilità necessaria a competere in uno scenario difficile garantendo un'indennità di disoccupazione universale - e non settoriale - per assicurare a chi esce una decorosa continuità di reddito".
Giulio Sapelli (Statale di Milano)
In pensione a 67 anni
"La manovra e la contromanovra sono sbagliate e paradossalmente, piuttosto che imboccare strade dannose, è meglio non fare niente. Avessimo una classe politica capace, due cose semplici da fare, in realtà, ci sarebbero: innalzare subito l'età pensionabile a 67 anni, sia per gli uomini che per le donne, e ridurre sensibilmente la tassazione sul lavoro a carico delle imprese. Una terza mossa, purtroppo, l'Italia non la può eseguire da sola ma dev'essere concordata a livello europeo: tornare alla situazione precedente alla legge Amato, con una netta separazione tra le banche commerciali e le banche d'investimento. Bisogna tagliare le unghie alla finanza, non è possibile che il debito pubblico sia appeso a strumenti come i Credit default swaps. E comunque, siamo sicuri che si debba ingaggiare una battaglia all'ultimo sangue contro il debito pubblico? Quello del Belgio è enorme eppure quel Paese cresce assai più dell'Italia. Non è neppure il caso di aver troppa paura dell'ipotesi default. L'Argentina ci è passata e non mi sembra che oggi se la passi male. E l'inflazione non dev'essere vista come il diavolo, anzi: del resto, com'è uscita l'Italia dalle crisi successive alle due guerre mondiali? Con l'inflazione".