Anche quando sbagliano, o addirittura commettono frodi, riescono a cambiare poltrona prima di essere scoperti. Guardate che non è solo un problema etico: è che spesso mandano le aziende a ramengo, tanto loro sono al sicuro da un'altra parte

Perché i manager non pagano mai

La qualità di un manager si misura dai giudizi che ne dà (in privato) il suo successore. Oggigiorno con un buon ufficio stampa è facile trasmettere all'esterno un'immagine vincente, al di là dei risultati effettivi. È solo quando un manager lascia che i veri nodi vengono al pettine: dai piccoli favoritismi alle frodi. Difficilmente, però, se ne ha notizia all'esterno. A meno di grandi frodi che minacciano la sopravvivenza stessa di una società, il successore non ha interesse a spendere tempo e risorse per mettere in luce gli errori del suo predecessore. Farlo apparirebbe vendicativo e poco costruttivo: tanti più sono i danni che un predecessore ha lasciato, tanto più il successore ha altri, più importanti, problemi da gestire.

L'unica eccezione è il fallimento. In caso di bancarotta il giudice è obbligato a intervenire e i problemi emergono. Se la banca d'investimento Lehman Brothers non fosse fallita, non avremmo mai scoperto le frodi contabili che aveva perpetrato. Lo stesso si può dire per Enron. Di Bear Stearns, che è stata salvata dall'intervento della Federal Reserve, non si ha invece notizia di frode alcuna. Possibile che tutto fosse in ordine, ma anche possibile che Jamie Dimon, amministratore delegato di Jp Morgan (che ha rilevato Bear Stearns), avesse di meglio da fare che investigare possibili irregolarità. Se le scopre, fa lui la figura del fesso.

QUESTO NON È UN PROBLEMA solo americano. Anche quando commettono frodi o violano i loro doveri professionali, i manager nostrani non sono indagati e tantomeno condannati se l'impresa non finisce in bancarotta. Per bancarotta le condanne non mancano. Questa deresponsabilizzazione non viola solo un comune senso di giustizia: rappresenta un importante problema economico. Se la verità difficilmente viene a galla, le imprese tendono a essere gestite con un'ottica di breve periodo: i problemi si rimandano e si coprono, fino al momento in cui la situazione diventa insostenibile e il manager cambia lavoro prima che i nodi vengano al pettine.

Un possibile rimedio esiste: pagare i manager in modo differito. Se una parte notevole dei compensi è legata ai risultati futuri, il rischio di una politica miope è ridotto. I manager, però, non amano avere una parte notevole del compenso dipendente dal futuro della società dopo che se ne sono andati. La resistenza è comprensibile: perché mai dovrebbero pagare per gli errori altrui? Affinché un pacchetto retributivo diluito nel tempo sia attraente, è necessario che sia molto cospicuo: il costo per l'impresa è quindi elevato.

RIMANE POI IL PROBLEMA di che fare in casi come quello di Corrado Passera, passato da amministratore delegato di Intesa Sanpaolo a ministro. Per indurlo a una politica lungimirante, il suo contratto di manager avrebbe dovuto comprendere dei pagamenti differiti nel tempo, in funzione della performance di Intesa dopo la sua dipartita. Ma da ministro dello Sviluppo sarebbe imbarazzante che venisse a beneficiare delle iniziative che coinvolgono Intesa e il ministero. Per questo Passera ha giustamente venduto tutte le azioni della banca da lui possedute. In questo modo, però, non subirà alcuna conseguenza finanziaria degli effetti di lungo periodo delle sue scelte gestionali passate.

Spetta allora alla stampa chiedere conto ai manager e ai politici per le conseguenze delle decisioni prese, anche dopo che hanno lasciato una certa posizione. Dopo l'aumento di capitale, Passera da amministratore delegato di Banca Intesa aveva dichiarato che confermava la «politica di dividendi prevista». In questi giorni il nuovo amministratore delegato l'ha messa in dubbio. È solo una diversità di strategia o fu un errore promettere ciò che difficilmente si poteva mantenere?

Lo stesso problema vale per i politici come l'ex ministro Tremonti. Da ministro Tremonti consentì alla Fondazione Montepaschi di indebitarsi per sottoscrivere l'aumento di capitale della banca. Si trattò di un grande errore di cui oggi Siena paga le conseguenze. Ma a lui non se ne chiede conto perché non è più lì. È forse questa la sua "uscita di sicurezza" (titolo del suo ultimo libro)?

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