'Certo, c'è la crisi. Ma soprattutto c'è l'incapacità di uscire da vecchi schemi. Di pensare in modo non gerarchico. Di mescolare competenze diversissime. Insomma, di adeguarsi alla nostra era'. L'accusa di Luke Williams, docente di pensiero innovativo

Che siano tempi duri per il business, è sotto gli occhi di tutti. Che ciò dipenda solo da generica "crisi", è però vero solo in parte: a tenere costantemente sotto pressione aziende di ogni tipo non sono solo la contrazione dei mercati, il calo della domanda, la mancanza di investimenti o la crisi delle banche, ma anche e soprattutto il cambiamento costante e sempre più rapido che investe ogni attività produttiva, economica e commerciale, facendo sì che «i fondamenti stessi su cui poggiano a volte decenni di attività mutino o - peggio - vengano meno dall’oggi al domani».  

Quale sia la portata di ciò che sta accadendo lo spiega l’esperto di "pensiero dirompente e innovativo" e professore di "Innovazione e imprenditorialità" presso la New York University Stern School of Business Luke Williams. Che porta ad esempio quanto accaduto di recente nel settore della telefonia cellulare: «Soltanto cinque anni fa il mercato era dominato da tre aziende ovvero Motorola, Rim con il suo Blackberry e Nokia. Ora al loro posto ci sono Samsung and Apple. E’ stata una trasformazione epocale ed ha richiesto appena un lustro, forse anche meno. La velocità con la quale avvengono cambiamenti dirompenti sta aumentando costantemente e ormai non riguarda più il solo settore della tecnologia, ma ogni mercato». 

Dato questo contesto, cosa possono e debbono fare le aziende per garantirsi un futuro?
«Quello che serve è un rapido e radicale cambiamento nel modo di pensare, un cambiamento culturale. Troppe persone, troppi manager credono che la soluzione per traghettare l’azienda nel futuro sia semplicemente adottare gli ultimi ritrovati tecnologici. Ma la tecnologia è solo un mezzo, non il fine del cambiamento che le aziende devono portare a compimento per continuare ad esistere».

Quindi è la mentalità che deve cambiare?
«Sì, anche. Ma non solo: la maggior parte delle aziende deve oggi ripensare dalle fondamenta il business in cui opera e decidere per cosa e con chi vuole competere. Al punto da cambiare settore se è questo che il mercato richiede loro. Ovviamente non parliamo di uno sforzo banale, e anzi per riuscirvi è necessario ricorrere a strategie non convenzionali che si discostino decisamente da quelle correnti. Insomma, per sopravvivere le aziende devono saper cambiare tanto profondamente quanto sono mutate le condizioni del mercato in cui operano».

La domanda è: come?
«La prima cosa da fare, il primo task per il management, è quello di incoraggiare e favorire nel proprio staff l’ampliamento dello "spettro percettivo".  In parole più semplici, è necessario educare le persone letteralmente a scorgere più opportunità di quante non ne vedano di solito in un determinato contesto. E ciò richiede, tra le altre cose, che si favorisca e agevoli l’incontro e il confronto tra competenze anche molto diverse, che si facciano lavorare insieme professionisti i quali solitamente in azienda non si incontrerebbero mai».

E la seconda?
«La seconda cosa da fare è incoraggiare i membri del proprio team a espandere il proprio "spettro concettuale", perché non basta solo "vedere" che sul tavolo ci sono più opzioni, ma serve anche sviluppare la capacità di combinarle insieme in maniera creativa e inattesa, generando soluzioni nuove. Il problema è che, almeno inizialmente, i nostri schemi mentali precostituiti influenzano le nostre scelte, inducendoci rapidamente a scartare opzioni solo perché apparentemente non hanno nulla a che fare con il nostro business o semplicemente non sono familiari. La soluzione è imparare a spezzare le categorie tradizionali che siamo soliti usare quando pensiamo al nostro business e ai nostri clienti. Solo così potremo creare le condizioni per un’innovazione che sia veramente 'disruptive'».

Lei chiede molte alle aziende: come reagiscono?
«Complici la crisi e i timori per il futuro, le aziende mostrano molta più disponibilità e apertura di quanto ne avessero prima o ci si aspetterebbe da loro. In generale, vogliono fare qualcosa e vogliono farla in fretta. Hanno paura».

Nota differenze culturali nel modo in cui le persone approcciano le sue teorie da una nazione all’altra? E cosa ha trovato in Italia?
«La notizia è che, ovunque vada, trovo ad aspettarmi le stesse domande. E questo nonostante le differenze culturali anche marcate che contraddistinguono le diverse realtà con cui sono venuto a contatto. Ciò avviene perché in tutto il mondo le aziende sono accomunate da due ordini di problemi: innanzitutto, le barriere mentali che condizionano le decisioni dei manager, e che generalmente traggono origine e forza dall’avversione al rischio e dalla paura del fallimento.  L’altro grande problema comune è poi l’organizzazione stessa, l’insieme di rigide gerarchie organizzative su cui un’azienda basa il proprio funzionamento».

Eppure la gerarchia è ciò che tiene insieme un’organizzazione…
«Certo, ma è anche ciò che contemporaneamente le impedisce di cambiare direzione e obiettivi quando diviene necessario. Per condurre un business profittevole, molto di ciò che viene fatto in un’azienda mira a migliorare, ottimizzare e rendere più efficiente il business esistente. Per quanto comprensibile, tale attività è paradossalmente ciò che rende le aziende migliori, ma anche allo stesso modo ciò che le rende più vulnerabili, perché quando tutti sono così concentrati a far andare l’esistente, significa anche che nessuno sta guardando al futuro».

Cos’è che l’ha colpita di più nei molti confronti con audience così diversi tra loro?
«La frustrazione: ne percepisco tanta, a tutti i livelli. Tormenta coloro che hanno idee e proposte innovative ma non riescono nemmeno a proporle ai loro capi. Il mio compito è spiegare loro che il segreto, e quindi il compito di chi ha un’idea innovativa, consiste nel mostrare efficacemente il suo reale valore, nel saperla raccontare costruendoci intorno una storia che sia convincente».  

Quindi raccontare l’innovazione è importante tanto quanto saperla fare?
«E' esattamente così: senza storytelling non si va lontano».