Inchiesta

Monti vende, nessuno compra

di Camilla Conti e Luca Piana   23 agosto 2012

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Lo Stato vuole mettere all'asta i suoi immobili, dalla caserme agli edifici storici. Il problema però è trovare gli acquirenti. E il passato recente dimostra che questa ricetta per ridurre il debito non ha mai funzionato

Lungomare di Albenga, riviera ligure di Ponente. Qui, proprio di fronte all'Isola Gallinara, si può comprendere uno dei motivi che hanno contribuito a far esplodere il debito pubblico italiano. A poche decine di metri dalle spiaggia c'è la caserma Piave, inaugurata nel 1930 dal principe Umberto di Savoia. I suoi diciassette eleganti edifici, con i parquet in legno e i corrimano in ferro battuto, il piazzale delle esercitazioni, le scuderie e il campo sportivo sono abbandonati da vent'anni.

In tutto questo tempo, mentre Albenga è cresciuta divorando per sempre il suo paesaggio, la Piave è rimasta lì, vuota. Il boom immobiliare degli anni Duemila, un periodo nel quale si poteva sfruttare l'onda del mercato per dismettere le proprietà pubbliche e ridurre i debiti, è passato senza che fosse fatto nulla. E quando nel 2010, forte di una variante edilizia già approvata, il Demanio ha infine tentato di venderla, l'asta è andata deserta. Si parlava di nababbi russi e arabi ma nessuno, al dunque, si è fatto avanti. Sarà stata la crisi, o magari quel maledetto poligono militare che divide in due tronconi l'area e che finora non è stato possibile sloggiare. Purtroppo, però, i 40 milioni di euro che si volevano incassare non si sono visti. E chissà per quanto tempo resteranno un miraggio.

Vendere tutto, è il nuovo slogan dell'Italia assillata dal debito pubblico. Da destra a sinistra è un fiorire di proposte su cosa vendere e come farlo, dalle case popolari all'oro della Banca d'Italia, dalle innumerevoli caserme dismesse a quelle ancora utilizzate, dall'industria di Stato alle 5.500 aziende di proprietà degli enti locali. Vittorio Grilli, ministro dell'Economia, che pure è uno di quelli che ci vanno più cauti, ipotizza di mettere sul mercato beni pubblici per 15-20 miliardi l'anno per un periodo di qualche anno. Al top della gamma delle ambizioni ci sono invece i due ex ministri Angelino Alfano e Renato Brunetta. I quali, dopo aver contribuito al governo che più di tutti ha aumentato il debito nell'ultimo ventennio (il Berlusconi terzo), asseriscono ora di poterlo ridurre in un colpo solo di 400 miliardi. Di euro, s'intende.

La questione del debito pubblico, purtroppo, è cosa seria. In giugno il suo livello ha raggiunto il record di 1.973 miliardi, oltre 32 mila euro a testa per ogni cittadino italiano, neonati inclusi. È ben più elevato della ricchezza nazionale che si produce in un anno (è pari al 123 per cento del Pil) e anche nelle ipotesi di riduzione più agguerrite richiederà uno sforzo enorme per almeno una decina d'anni. Secondo il piano elaborato da un drappello di personalità del centro studi Astrid, capeggiati da Giuliano Amato e Franco Bassanini, sarebbe necessario mobilitare risorse per 200-250 miliardi per riportare il debito sotto il 100 per cento del Pil da qui al 2020 (per i dettagli, vedi l'intervista a Marcello Messori qui a fianco). Considerando che gli interessi sui titoli di Stato bruciano 80-90 miliardi ogni anno, si tratta di un arco lunghissimo, che produrrà conseguenze sulla struttura sociale del Paese. Un esempio: chiunque oggi abbia 25-30 anni deve immaginare che nel periodo cruciale della sua vita professionale si dovrà arrangiare con uno Stato tutto preso nella lotta al debito. E con scarsi quattrini da investire per rilanciare l'economia, la formazione, lo Stato sociale.

Di ridurre i debiti si parla ormai da inizio anni Novanta, quando fu proprio il governo Amato ad avviare un risanamento che dal 1994 al 2007 ha portato il debito pubblico dal 120 per cento del Pil fino quasi al 100. Già prima della recessione del 2008, purtroppo, la spinta politica si era esaurita e l'arrivo della crisi ha vanificato lo sforzo fatto in precedenza. Non è dunque del tutto vero che la lotta al debito è stata fatta solo a parole. A partire dal 1994, infatti, lo Stato italiano ha venduto pressoché di tutto, incassando cifre considerevoli. Sono state vendute (per intero o in parte) aziende pubbliche come Telecom, Eni, Enel o le banche ex Iri, con un incasso di 140 miliardi di euro; sono stati piazzati immobili per 20 miliardi e persino crediti nei confronti di soggetti terzi per 26; è stato alienato addirittura un pezzetto dell'etere, sotto forma delle frequenze Umts, con un irripetibile incasso di 13,8 miliardi.

A dispetto di queste cessioni, però, il debito ha continuato a covare come un fuoco sotto la brace, e alla fine è di nuovo divampato. Una prima ragione è il fatto che la spesa pubblica non ha mai smesso di correre, vanificando i benefici; una seconda è che, assieme alle proprietà, l'Italia si è venduta anche una fetta della propria credibilità. Lo dice il fatto che a partire dal 2001, quando la spinta delle privatizzazioni si è esaurita, si è puntato tutto su entrate straordinarie come i condoni fiscali ed edilizi. Operazioni che hanno permesso di imbellettare i conti pubblici ma che, contemporaneamente, hanno accelerato l'evasione fiscale.
Ed è qui che i piani di dimissione hanno iniziato a mostrare la corda, rivelandosi spesso clamorosi fallimenti. Difficile dimenticare, ad esempio, le cartolarizzazioni degli appartamenti di proprietà degli enti pubblici volute dall'ex ministro Giulio Tremonti. Le quali, se hanno permesso a circa 100 mila inquilini di acquistare casa, per le casse dello Stato si sono rivelate un flop micidiale, visto che per chiudere la complicata struttura finanziaria che era stata appositamente realizzata il governo ha dovuto mettere mano al portafoglio. Così come ha dato pochi frutti il programma - sbandierato in pubblico in ogni occasione - dell'ex ministro della Difesa, Ignazio La Russa, per vendere lo sterminato numero di caserme ed edifici militari non più utilizzati.

Le Forze Armate vengono spesso accusate di essere disposte a presidiare intere strutture abbandonate anche con un solo piantone, piuttosto di non mollare l'osso. Ed è vero che ci sono voluti dieci anni di negoziazioni per giungere a due elenchi di beni da dismettere, per un valore stimato di circa 2 miliardi. Allo stesso tempo, però, quando pure si è provato a vendere, i risultati non sono stati granché, come dimostra il pacchetto di caserme e affini che il Demanio prova a piazzare da due anni. Nel quale, oltre alla Piave di Albenga, ci sono due caserme a Bologna, la Sani e la Masini, il palazzo dell'Intendenza di Finanza di Alessandria, l'edificio delle ex Carceri Nuove di Vigevano. Non manca, per chi volesse, nemmeno un forte di epoca napoleonica sulle alture di Portovenere, con vista su Cinque Terre e Golfo dei Poeti.

Le proprietà immobiliari degli enti pubblici sono, in realtà, sterminate. L'economista Edoardo Reviglio ne ha contate per 368 miliardi, delle quali libere per 42. Il Comune di Milano ha affidato lo storico Palazzo Bolis Gualdo, in via Bagutta, e altri immobili a un fondo gestito da Bnp Paribas, che in autunno cercherà di venderli. La Provincia di Roma si è rivolta alla Cassa Depositi e Prestiti per studiare come valorizzare un pacchetto di dieci edifici, fra i quali due occupati dai carabinieri: la caserma di piazza del Popolo e il comando provinciale di piazza San Lorenzo in Lucina. C'è poi il Fondo Immobili Pubblici, gestito da privati, che ha in vendita diversi palazzi in tutta Italia, molti occupati dagli uffici locali di enti come l'Inps, l'Inail e altri.

Il ministro Grilli, ora, sta preparando una prima lista di 350 edifici, per un valore complessivo di 1,5 miliardi, che dovrebbero essere presi in carico da un fondo istituito dalla Cassa Depositi e Prestiti. La quale, a sua volta, avrà il compito di venderli o valorizzarli al meglio. La lista non è completa e, in verità, i dettagli dell'operazione potrebbero cambiare. Secondo le prime indicazioni, al suo interno ci sarà un edificio settecentesco sul Canal Grande, Palazzo Diedo, nonché il Castello Orsini di Soriano al Cimino, sulle colline di Viterbo. In realtà, l'intera operazione è ancora in cantiere e il Demanio mette le mani avanti: «L'elenco non è completo e probabilmente non lo sarà prima di fine agosto», dicono.

Dopo le parole a vuoto degli ultimi anni, ce la farà Grilli? Gli esperti sono cauti. Marzio Longo, partner dello studio legale Freshfields, osserva che se fossero vere le prime indicazioni sul pachetto da un miliardo, il valore medio degli immobili messi in vendita sarebbe di 4-5 milioni: «Troppo poco per gli investitori istituzionali stranieri che di solito si muovono per operazioni di valore minimo compreso tra i 50 e i 100 milioni», spiega, sottolineando anche altri problemi: la difficoltà di ottenere finanziamenti bancari, l'elevato rischio che in questa fase gli investitori associano al mercato italiano e il recente taglio del 15 per cento dei canoni d'affitto pagati dalla pubblica amministrazione.

Chissà che, fra tutti questi problemi, al governo convenga darsi da fare non solo con gli immobili, ma anche con la privatizzazione delle aziende pubbliche e la liberalizzazione dei settori in cui operano. Lo suggerisce Alberto Pera, ex segretario generale dell'Antitrust, oggi avvocato presso lo studio legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners. «Non bisogna aver nostalgia delle partecipazioni statali, nostalgia nutrita dalla sfiducia nei confronti di un certo capitalismo nazionale troppo aggressivo. Serve coraggio per aprire il sistema, studiando mosse concrete anche in termini di priorità». Compito difficile, forse. Ma che i partiti politici, per troppo tempo bravi solo a fuggire le responsabilità, oggi hanno reso non più rinviabile.