
Se non fosse che Bernardo, 89 anni, è alle prese con un guaio ricorrente nell’industria nazionale: ha litigato con i figli avuti dalla prima moglie, Giuseppe e Violetta, riprendendosi le azioni che aveva girato loro anni fa. Ne è nata una vertenza giudiziaria che rischia di durare anni e di bloccare ogni futuro assetto dell’Esselunga, visto che di mezzo ci sono anche la seconda moglie di Caprotti e la figlia nata dal loro matrimonio, Marina Sylvia. E chissà che vendere, alla fine, non sia la soluzione in grado di mettere tutti d’accordo.
Fondate come sono sulla famiglia, quando affrontano un ricambio al vertice le imprese italiane rischiano di andare gambe all’aria. È storia quotidiana per le piccole, visto che neppure una su cinque sopravvive alla seconda generazione. Ma lo ha confermato in questi giorni anche il caso di un gioiello del made in Italy come Luxottica, gigante mondiale delle montature per occhiali, 7,3 miliardi di ricavi nel 2013 e una serie di marchi che i concorrenti invidiano, dall’americano Ray-Ban all’italiano Persol.
Fino a pochi mesi fa, il fondatore Leonardo Del Vecchio, 79 anni, era additato a modello: già da tempo aveva delegato la gestione ai manager, suddividendo il capitale della holding di famiglia - la lussemburghese Delfin - tra i sei figli, avuti da tre diverse compagne. Aveva deciso di tenerli fuori dalla stanza dei bottoni e strutturato tutto in modo che nessuno di loro potesse defenestrare i fratelli troppo facilmente, o metterne uno in minoranza al fine di ledere i suoi diritti. E così si poteva godere i propri passatempi: lo chalet con vista sul Monte Bianco, la villa sul mare di Cap Ferrat e lo yacht Moneikos, una robetta di 62 metri. E tutti gli esperti a dire: «Bravo Leonardo, così si fa», in ossequio al principio caro agli anglosassoni che le aziende vanno affidate ai più capaci, non a un erede che ha solo avuto la fortuna di nascere nel posto giusto. «Se vuoi vincere le prossime Olimpiadi, non selezioni per la tua squadra i figli dei vecchi campioni», ha detto dall’alto della sua fortuna il self-made Bill Gates, creatore della Microsoft, che nei mesi passati ha annunciato che destinerà gran parte del suo patrimonio a progetti per combattere la povertà: «Mia moglie Melinda e io siamo convinti che non si fa un favore ai figli lasciandogli tanto, è demotivante», ha spiegato.
Solo che poi, come sempre, la vita è difficile da prevedere. L’architettura successoria predisposta da Del Vecchio, ad esempio, è stata distrutta da un missile che risponde al nome di Nicoletta Zampillo, la seconda moglie, da cui aveva divorziato nel 2000. Una nuova compagna (non sposata) e due figli più tardi, Leonardo ha incrociato Nicoletta di nuovo. Chi conosce la coppia sostiene che non sia stato per caso e che lei, dopo l’esperienza del passato, ha mostrato fin da subito di avere le idee chiarissime. «Non risposarla, mandi a monte la suddivisione dell’azienda tra i figli», si racconta che abbiano ripetuto a Leonardo manager e avvocati di fiducia. Niente da fare: le nozze Del Vecchio-Zampillo, episodio secondo, si sono celebrate, e la consorte ritrovata avrebbe chiesto il 25 per cento della holding Delfin, riaprendo la discussione sulla suddivisione dell’eredità futura del marito.
La questione non è da poco: una partecipazione del genere vale centinaia di milioni, se non di più. E non basta: perché, così facendo, Nicoletta e il figlio Leonardo Maria avrebbero insieme una quota più che doppia rispetto agli altri eredi dell’anziano patron. Una volta scoppiato il putiferio, con due manager di vertice che hanno lasciato la poltrona nel giro di un mese (vedi articolo a pagina 126) e il titolo che è crollato in Borsa, la signora si è difesa a spada tratta: «Io non ho chiesto nulla. È la legge che decide, non la moglie di Del Vecchio», ha detto.

Pare che il divorzio abbia dato il “la” al riavvicinamento di Rupert con il figlio Lachlan, il delfino designato che aveva mollato le attività paterne nove anni fa, e che, nel 2014, è ritornato a sorpresa a capo della 21 Century Fox (la holding che governa le attività televisive e cinematografiche) e presidente non esecutivo di News Corp, la società che possiede quotidiani di peso come l’inglese “The Times” e l’americano “The Wall Street Journal”. I maligni ipotizzano che Lachlan e i fratelli Elisabeth e James non fossero felici del peso, nella spartizione dell’eredità, che avrebbero potuto avere le sorelline Grace e Chloe, figlie di Wendi. Se Lachlan è tornato a casa, insomma, in parte è merito di Blair. Magari James, che dal gruppo non se n’è mai andato e forse sperava di avere il posto destinato a Lachlan, del rientro del fratello non sarà così felice. Basta aspettare e qualcosa accadrà. La famiglia Murdoch di notizie se ne intende. Sia quando le diffonde attraverso le sue testate che quando le produce in casa.
È finita a tarallucci e vino, è il caso di dirlo, la triste vicenda che ha avuto come protagoniste Liliane Bettencourt, 92 anni appena compiuti, e Françoise Bettencourt Meyers, la figlia sessantenne. Nell’elegante ristorante parigino Marius et Janet, giusto un anno fa, è tornata la pace nella famiglia proprietaria del colosso L’Oréal, il più grosso gruppo di cosmetica al mondo (fattura 23 miliardi). Nel 2008, la figlia aveva avviato una causa contro il fotografo François-Marie Banier, accusandolo di aver scroccato un miliardo di euro, approfittando della forma di Alzheimer di madame Liliane, che anche grazie al 30 per cento de L’Oréal in portafoglio è una delle donne più ricche del mondo. Il tribunale le ha dato ragione e il fotografo ha dovuto cominciare a restituire parte del malloppo. Unica figlia del fondatore de L’Oréal, Liliane è stata affidata al nipote di 27 anni, Jean-Victor Meyers Bettencourt, che l’ha sostituita nel consiglio d’amministrazione.
Se si litiga in tutto il mondo, in Italia la questione è però economicamente più rilevante. Perché le aziende familiari sono più diffuse, quanto meno se si limita il confronto all’industria anglosassone, e perché in media sono più piccole. «In un grande gruppo, ogni volta che si pone il problema del ricambio le opzioni sono molteplici. Il figlio del fondatore può limitarsi a fare l’azionista, oppure sovrintendere una parte dell’attività, delegando questioni che conosce meno. In un’azienda piccola, magari con forti competenze tecniche, il leader deve sapere tutto, anche perché non ci sono i margini economici per assumere troppe figure dall’esterno», spiega Guido Corbetta, professore di Strategie delle aziende familiari all’Università Bocconi.
Nel mondo dell’impresa non esistono il bianco e il nero, e nessuno dice che “familiari” è brutto e “manageriali” bello, anzi. Corbetta lo può sostenere numeri alla mano, grazie ai dati elaborati dall’osservatorio Aub, che segue nel tempo un campione di tremila aziende familiari: «Più piccole sono, più migliorano i risultati di quelle gestite dal proprietario o da un parente, e non da un esterno. Ma appena un’impresa cresce, questa correlazione positiva scompare», racconta il docente, ricordando come negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sia diffusa l’usanza di vendere la propria creatura a un certo punto dello sviluppo, dedicandosi ad altro: «È una questione culturale, da noi la forte personalizzazione rende difficile immaginare l’impresa come qualcosa di autonomo rispetto alla figura e alla personalità del suo fondatore».
Dice Corbetta che dal 2007, nelle aziende sotto osservazione, il numero dei manager esterni che prendono le leve del comando è superiore a quello dei “figli e parenti di”. Il familismo, dunque, viene pian piano superato. Nel tempo si vedrà quali saranno gli effetti di questo cambiamento dal basso: «Credo che la situazine si polarizzerà. Oggi sostenere un’azienda è più difficile: quelle capaci miglioreranno sempre più, le altre avranno vita dura», prevede Corbetta.
Non ha figli lo stilista Giorgio Armani, 80 anni e un successo che non sbiadisce, e l’interrogativo sul futuro del suo gruppo è uno dei più difficili da risolvere. «Sto lavorando allo staff che continuerà il mio lavoro»: era l’ottobre del 2009 e lui, a Mosca per festeggiare l’anniversario dello sbarco in Russia, rispondeva così a chi glielo domandava direttamente. Sono passati cinque anni e Armani è ancora saldamente in sella. Perché, come ha scritto “The Economist”, «i patriarchi sono riluttanti nel cedere il controllo delle società che hanno creato».
Nella moda non tanto, ma nell’industria in generale i casi di successioni fortunate non mancano. Le pistole più famose del mondo, le bresciane Beretta, sono saldamente impugnate dai discendenti del fondatore da quindici generazioni. Adesso alla presidenza c’è Ugo Gussalli Beretta, ma a comandare sono i figli: Pietro, che è amministratore della holding, e Franco, che è alla guida della fabbrica d’armi della Valtrompia. Manager esterni alla famiglia in posizione di vertice, niente.
Matteo Lunelli, dopo essersi fatto le ossa lavorando a Londra come banchiere, ha preso le redini delle Cantine Ferrari di Trento, molto conosciute per lo spumante, in precedenza guidate dallo zio Gino. La Ermenegildo Zegna, storico marchio biellese dell’abbigliamento da uomo, è ormai arrivata alla terza generazione, con i due rami familiari del figlio del fondatore che sono rimasti al fianco l’uno dell’altro durante gli avvicendamenti che hanno portato al vertice i cugini Ermenegildo e Paolo. Lo stesso è accaduto alla De Agostini di Novara, che pure lungo la strada ha visto l’uscita dalla compagine dei soci di alcuni familiari, con tanto di strascichi polemici.
La questione ereditaria è talmente cruciale che molti imprenditori cercano di risolverla in anticipo. Carlo De Benedetti, presidente del Gruppo Editoriale l’Espresso, ha girato ai figli le quote azionarie del suo gruppo. I Benetton, visto l’elevato numero di figli e nipoti dei fratelli Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo, hanno dato vita a una struttura decisionale complessa. Le rispettive famiglie controllano un quarto ciascuna di Edizione, la finanziaria a cui fa capo la Benetton originaria - quella dell’abbigliamento - i business autostradali e quelli aeroportuali. Ogni fratello ha nominato un erede, cui toccherà indicare un delfino in rappresentanza del proprio ramo: non dev’essere per forza un fratello o una sorella, potrebbe essere un altro parente. Luciano ha indicato il figlio Alessandro, Gilberto ha puntato su Sabrina, Carlo su Christian e Giuliana su Franca. E andrà avanti così, se tutto filerà liscio. I diversi rami non sono infatti obbligati a stare insieme da alcun vincolo.
Qualora uno dovesse decidere di uscire da Edizione, si aprirebbe qualsiasi scenario. Perché se è vero che poche imprese superano i 50 anni, lo è altrettanto che nessun accordo tra familiari può considerarsi scolpito nella roccia. Alla scomparsa del papà Pietro Barilla, i figli Guido, Paolo e Luca si erano messi d’accordo per tenere a turno la presidenza del gruppo alimentare per tre anni. Ha cominciato Guido. E non ha mai smesso. Evidentemente ai tre fratelli e alla sorella Emanuela va bene così visto che, per ora, non si ha notizia di attriti sulla reggenza del primogenito.
Anche Gianni Agnelli, quando morì nel 2003, pensava di aver messo tutto a posto. Perché nella sua famiglia la successione era un fatto di gerarchie militari: uno prende il comando, o quasi, e gli altri devono accontentarsi. La sua scelta era caduta sul nipote John Elkann, che ha però dovuto superare la prova della causa fatta dalla mamma Margherita per ridiscutere l’accordo ereditario sulla suddivisione dei beni di famiglia, che la escludeva dal comando della Fiat. Ora però John è saldo in vetta: è il presidente della cassaforte degli Agnelli, la società in accomandita semplice che detiene il 51,3 per cento della Exor, la holding che controlla tutte le principali partecipazioni del gruppo. Nel consiglio dell’accomandita i tre principali rami (gli eredi di Gianni, quelli di Umberto e Susanna, i Nasi) esprimono due consiglieri a testa. Ogni “raggruppamento”, in teoria, potrà proporre il successore. Ma John ha 38 anni e, dopo che la Corte d’Appello di Torino ha respinto il ricorso della madre, si gode in pace lo scettro di famiglia.
Tutti da sistemare sembrano, invece, i futuri equilibri nella Fininvest di Silvio Berlusconi. Lo conferma l’ultima notizia: per effetto della perdita dei requisiti di onorabilità dovuta alla condanna definitiva per frode fiscale, la Banca d’Italia ha imposto all’ex premier di cedere a terzi il 20 per cento posseduto nel gruppo assicurativo Mediolanum. Se la Fininvest fosse già in mano ai figli, il problema non si sarebbe nemmeno posto. Ma i figli sono cinque, due dal primo matrimonio e tre dal secondo. Una situazione potenzialmente esplosiva.