James Galbraith e la fine della normalità: 'Abituiamoci a vivere nell’economia del meno'
"In molti pensano che la crisi sia solo uno choc momentaneo e che presto la crescita tornerà come un tempo. Ma questo non può accadere. E vi spiego perché". Le tesi dell'economista americano
Dimenticate la normalità. Non tornerà più, per lo meno nell’economia. Instabilità e crisi ormai sono il pane quotidiano, e mai più avremo la crescita così come l’abbiamo conosciuta. Dunque, meglio adattarsi al nuovo stato e vivere al meglio; evitando di prendere strade sbagliate che peggiorano la situazione: come quella che l’Europa continua a percorrere e che porterà – se Frau Merkel non cambia rotta – alla sua fine. Parola di James K. Galbraith, economista americano. Figlio di John Kennet Galbraith (l’autore de “la società opulenta”), radical, pacifista, grande studioso delle diseguaglianze, dedica il suo ultimo libro, appena uscito negli Stati Uniti, alla “fine della normalità” (Simon & Schuster, 2014) . E qui spiega perché, nonostante le apparenze, ce la possiamo fare.
Perché questo titolo, professor Galbraith? Cosa intende per “normale”, e perché nell’economia non c’è più niente di normale? "C’è un’aspettativa diffusa tra gli americani: che la crisi fosse solo uno choc, che tutto sarebbe finito e l’economia sarebbe tornata a crescere ai livelli di prima, e che anche l’occupazione sarebbe tornata com’era. Si tratta di un sentimento diffuso, che coinvolge l’opinione pubblica, i media e anche l’amministrazione, secondo il quale la crescita economica è quella che abbiamo conosciuto nel secolo scorso, e in particolare nei decenni seguenti la seconda guerra mondiale; e ritiene che questa crescita sia una condizione permanente, normale; e che dunque, passate le crisi, si torni a quella normalità. Il mio libro suggerisce che questo può non accadere, a causa di alcuni seri motivi".
Questi motivi lei li chiama “i quattro cavalieri”, che impediscono di tornare agli anni dorati della crescita economica: i costi crescenti e volatili dell’energia, il caos geopolitico con le tante crisi regionali non governabili, l’innovazione tecnologica mangia-lavoro e la finanza amorale. Ma questo vuol dire che dobbiamo rinunciare alla ripresa economica? Dobbiamo tutti adattarci a vivere con poca crescita? "Per passare a una situazione di forte crescita si dovrebbero fare parecchie cose insieme, e si può sbattere contro grandi difficoltà. La strategia prudente non è forzare per avere una forte crescita, ma adattarsi intelligentemente a una crescita più bassa; ma per fare questo, è necessario rafforzare tutte le istituzioni che proteggono la popolazione. Per dirlo in un altro modo: se c’è un’alta crescita, non c’è tanto bisogno di assistenza sociale, protezione per i più deboli, perché ci penserà l’economia spontaneamente. O almeno, questa è stata l’ideologia che ha resistito per molto tempo: la marea che sale solleva tutte le barche. Ma se non potremo più avere elevati tassi di crescita, diventano molto più importanti tutte le istituzioni e le politiche sociali".
Chi pagherà per tutta questa spesa sociale? "La comunità, noi tutti. Dobbiamo chiederci: quanta povertà, quanta miseria, quanta disoccupazione, quante morti precoci o malattie vogliamo? Questa è la domanda. La gente è qui, che tu te ne occupi o no. Crediamo che una società ricca possa permettersi di garantire protezione per i bisogni di base di tutti, o no? Io penso di sì".
La sua posizione è contro l’idea liberista che il mercato aggiusta tutto, ma rompe anche con la tradizione keynesiana, per la quale la politica sociale, l’intervento pubblico, servono per ottenere più benessere e anche più occupazione: cioè, fanno bene anche alla crescita. "C’è una scuola che è quella dell’austerity, che sostiene che se tagli protezione sociale avrai più crescita. Questa scuola di pensiero è stata al potere di fatto fino a pochi anni fa: ne sappiamo abbastanza per dire che se tagli la spesa sociale avrai più povertà, disagio, disoccupazione, senza avere grande sollievo sul debito pubblico; questa scuola non ha più credibilità. L’altra scuola dice che tutto quel che bisogna fare è invertire l’austerità, spendere più soldi e così avremo la crescita. Io dico solo: stiamo attenti. Non è così. Molte cose sono cambiate, rispetto al periodo d’oro della crescita post-bellica. I costi dell’energia crescono e sono volatili. Il business privato semplicemente vuole ridurre il più possibile i costi, e dunque cercherà di risparmiare sul lavoro sostituendolo con la tecnologia. Le istituzioni bancarie non si occupano di finanziare piccole e medie imprese che creano lavoro: non lo hanno fatto per anni, non è più il loro mestiere, negli Stati Uniti la speculazione ha preso il posto dei finanziamenti alle imprese. In questo quadro, la reazione migliore è proteggere la gente. E, in più, mettere fine alla particolare situazione che si è creata in Europa, con i paesi del Sud sotto enorme pressione per i programmi di austerity".
Prima di parlare di Europa: cos’è successo nelle elezioni americane? Obama può aver pagato la mancanza di crescita economica? In fondo, non aveva provato a fare quel che lei suggerisce, rafforzando la spesa sociale? "Non credo. Se i democratici fossero stati più forti nell’impegno su mantenere ed espandere i programmi sociali, come Social security e Medicaid, avrebbero avuto maggior successo nelle elezioni. Sono stati troppo timidi. Social security e medicaid sono programmi molto forti e popolari negli Stati Uniti. La gente dimentica negli Stati Uniti che la social security fu introdotta nel pieno della recessione, tra il ’29 e il 35, prima di Keynes e della Teoria generale, quando si disse che, a dispetto del fatto che c’era sempre più gente senza lavoro, sarebbe stata garantita la pensione a tutti i lavoratori: questo fu uno stabilizzatore enorme. In ogni caso, sarei prudente nell’interpretare i risultati delle elezioni di midterm, e proiettarli sulle presidenziali: tra due anni la situazione sarà molto diversa".
Quanto è diversa la situazione europea da quella americana? Anche per noi è la “fine della normalità”? "La situazione in Europa è molto più seria. Non si parla di crescita ma di stagnazione: per gli europei il fatto che la situazione economica sia difficile e che la crescita non tornerà facilmente è molto più familiare. E la crisi in Europa è più severa anche perché minaccia la stessa esistenza delle istituzioni europee, in un modo molto più diretto che negli Usa".
Lei critica la timidezza di Obama, ma contro la crisi la sua amministrazione non ha scelto politiche di austerity, al contrario della leadership europea. Che succede all’Europa se persegue su questa politica? "L’Europa fallisce. Non so se fallisce l’euro, l’Unione europea, ma certo l’Europa come entità economica non sopravviverà agli effetti enormemente sperequati dell’austerity. Ci saranno ribellioni, molte sono già in corso: nel Regno unito con l’Ukip, in Francia con il successo di Marine Lepen. Nell’Europa del Sud altri movimenti, molto più responsabili. Emerge adesso la posizione del governo italiano sul fiscal compact. In Grecia, è popolarissimo Siryza, che potrebbe essere l’ultimo partito genuinamente pro-europeo che la Grecia avrà: mi auguro che abbia successo, sennò le cose andranno molto peggio. Sui veda anche il successo di Podemos in Spagna: insomma, stanno emergendo alcuni cambiamenti politici in Europa".
C’è ancora tempo e voglia per un cambiamento di rotta nelle élite europee? "La domanda da porsi è: le autorità responsabili che possono cambiare posizione lo faranno? In primo luogo, parliamo del governo tedesco; anche la Bce ovviamente, ma prima di tutto il governo di Berlino. Va detta una cosa: il governo tedesco è un governo vero, ha un forte cancelliere, che se decide di cambiare posizione può farlo. Merkel è una persona potente e intelligente, non è destinata a restare intrappolata da posizioni prese nel passato; e i leader politici che sono davvero tali sanno cambiare posizione, se è in gioco la sopravvivenza".