Gli artigiani tornano nel mirino delle griffe

Sono sempre di più i grandi marchi della moda che appaltano il lavoro a laboratori italiani. Ma i prezzi richiesti per confezionare gli abiti sono bassi. E di nuovi occupati, per ora, non se ne vedono

«Prima ci hanno scaricato. Poi i big della moda sono ricomparsi e adesso ci vogliono pronti, prontissimi». Gli affari dell’imprenditore veneto Luca Bortolotto, titolare di un’azienda artigianale di pelletteria, vanno a gonfie vele. Da più di sei mesi i venti dipendenti lavorano sei giorni la settimana, nove ore al dì, mentre il telefono squilla di continuo.

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Torna a casa azienda: ecco chi riporta la produzione in Italia
15/12/2014
Dall’altro capo ?i grandi marchi dell’abbigliamento e degli accessori in pelle, tutti in cerca del vero Made in Italy. Se riportare un’azienda in Italia è una procedura che richiede tempo, cambiare fornitore è invece semplice: basta disdire altrove e cercare un committente italiano. Ed è quello che sta succedendo. La domanda di terzisti cresce soprattutto in Veneto, dove tradizionalmente l’artigianato è fortemente radicato. Secondo i dati della locale Unioncamere, da inizio anno la produzione è cresciuta del 4 per cento al trimestre nelle imprese con meno di nove dipendenti, mentre in quelle con oltre 250 lavoratori la situazione è più stagnante.

Anche l’artigianato toscano registra incrementi fino al 20 per cento della produzione, grazie ai clienti del lusso tricolore, che sono tornati a corteggiare la manifattura italiana. Anzi, a pretenderla: «Si sono abituati ai prezzi asiatici e adesso dettano le stesse condizioni, ma noi non possiamo lavorare sotto costo», commenta Giuliano Secco, trevigiano e titolare di una piccola azienda tessile che, come altre 300 della regione, ricorre agli straordinari per stare dietro agli ordini.

Merito anche di una campagna di sensibilizzazione che Secco sta portando avanti insieme alla Confartigianato, per convincere le grandi aziende a tornare in Italia e prendere come fornitori gli artigiani della regione, che per combattere la crisi si sono organizzati in filiere di qualità, velocizzando i processi, abbattendo i costi e aumentando l’attenzione alle esigenze dei clienti.

Ad esempio, nel 2013 Telethon ha affidato a Secco ?e a dieci colleghi la produzione delle sciarpe simbolo della maratona televisiva di raccolta fondi, che fino al 2012 erano fatte in Cina. Molti hanno seguito l’esempio e da settembre ?le commesse sono diventate così tante che a volte bisogna rifiutarle. L’alternativa sarebbe assumere più personale ma nessuno si fida: «Abbiamo passato anni con il freno tirato e siamo rimasti scottati dall’improvviso abbandono dei nostri committenti storici. Ora sono tornati, ma il dubbio rimane: è un fuoco di paglia?», si domanda Bortolotto, che gira il lavoro extra a qualche concorrente in difficoltà.

«Manca manodopera, ma formare un giovane costa troppo e non possiamo permetterci di rischiare», continua l’artigiano, che chiede alle istituzioni di farsi carico del problema, incentivando corsi di formazione ad hoc per creare manodopera addestrata. Il fenomeno non interessa solo la moda: anche l’elettrodomestico si muove in questa direzione. Luca Tacchin, capo della Delta Engineering di Padova, realizza impianti di automazione industriale e racconta che i clienti aumentano: «Linee produttive, assemblaggio e controllo qualità, realizziamo macchinari chiavi in mano per conto di medie aziende che riforniscono le multinazionali degli elettrodomestici».

Ovvero quei grandi gruppi che avevano abbandonato i fornitori italiani alla volta dell’Asia, inseguendo il minor prezzo. Oggi tornano a rivolgersi alla metalmeccanica italiana che, nel frattempo, si è dotata di sistemi di automazione all’avanguardia. «Quelle produzioni a basso costo, che sembravano destinate a svanire dall’Italia, stanno tornando per merito di impianti che oggi sono in grado di realizzare milioni di pezzi in tempi rapidi e a costi contenuti, con livelli di precisione elevati», conclude Tacchin. E l’occupazione? Quella, per il momento, resta al palo.

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