Molti annunci, buona volontà e iniezioni di fiducia. Ma non basta se ?non ci sono riforme che convincano ?i mercati a darci credito. In attesa della sua prima legge di stabilità
PER FARE UNA RIVOLUZIONE, anche solo la mini-rivoluzione dell’economia italiana promessa da Renzi con meno tasse e più concorrenza, ci vogliono ben più di sei mesi. Ci vorranno anche più dei mille giorni contemplati nella nuova strategia comunicativa del “passo dopo passo”. Mentre la prima legge di stabilità del governo Renzi non ha ancora visto la luce. Quindi è troppo presto per offrire un giudizio compiuto sulla politica economica del nuovo esecutivo, il quarto da quando in Italia è iniziato il grande freddo. Ma è utile comunque valutare quanto fatto in questi primi 180 giorni di Renzi a Palazzo Chigi. La crisi profonda del nostro Paese non ci consente passi falsi e i mercati finanziari ci hanno concesso una tregua che potrebbe rivelarsi molto breve. Quindi bene partire col piede giusto.
[[ge:espresso:plus:articoli:1.178639:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.178639.1409762003!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]] Il governo ha dato priorità alle riforme istituzionali rispetto a quelle economiche. Superare il bicameralismo perfetto e ridimensionare il ruolo (e i costi) del Senato è importante anche dal punto di vista economico perché velocizza i processi decisionali e taglia i costi della politica. Tuttavia le riforme istituzionali richiedono molto capitale politico e tempi lunghi e l’economia non aspetta, mentre il governo non ha potuto sin qui presentarsi a Bruxelles e di fronte ai mercati con almeno una importante riforma economica realizzata. Quella flessibilità nell’interpretare le regole fiscali dell’area euro che il governo ha spesso invocato negli incontri europei richiede all’Italia di esibire risultati concreti. La cosiddetta “clausola di riforma” (articolo 5.1. della riforma del Patto di Stabilità e Crescita del 2005) permette, infatti, di chiedere, per un massimo di tre anni e in via preventiva, di rallentare il processo di avvicinamento al pareggio di bilancio strutturale (l’obiettivo di medio periodo per l’Italia) nel caso in cui un Paese avesse realizzato (con tutti i decreti attuativi varati) riforme strutturali che portino a un miglioramento futuro dei conti pubblici. Se fosse partito dalle riforme economiche anziché dal Senato, Renzi avrebbe potuto ottenere concessioni dall’Europa e, alla luce di queste, affrontare le riforme istituzionali da una posizione di forza. Quindi la sequenza di misure non sembra sia stata quella ottimale.
Il provvedimento più importante in materia economica è stato sin qui il bonus di 80 euro. Va nella direzione giusta di ridurre prioritariamente il cuneo fiscale sul lavoro. Il profilo distributivo lascia a desiderare perchè rimangono fuori coloro che hanno redditi troppo bassi per pagare le tasse, i cosiddetti incapienti, oltre che i disoccupati, tra cui si annida la povertà. Ma soprattutto si tratta di una grande incompiuta. A tutt’oggi non sono infatti ancora state trovate le coperture strutturali per il bonus e questo ne compromette l’efficacia nel sostenere i consumi. Le famiglie, infatti, si chiedono se, come spesso avvenuto in Italia, quel che viene oggi dato con una mano, verrà un domani tolto con l’altra, se lo sgravio fiscale si tradurrà in nuove tasse, magari con acronimi fantasiosi. Poteva il bonus almeno servire per raccogliere il consenso, costruire una constituency per sostenere la spending review, mostrando agli italiani cosa si può fare quando si riesce a ridurre la spesa pubblica. Invece Renzi non ha voluto sin qui approfittare della luna di miele della vittoria elettorale alle Europee per presentare un coraggioso piano economico, farlo approvare a colpi di voti di fiducia e poi approdare a Bruxelles forte di questo e, dati alla mano, discutere di vincoli.
Il Jobs Act doveva essere la prima riforma nello scadenzario definito all’atto dell’insediamento del nuovo governo. Sarebbe stata la scelta giusta perché un mercato del lavoro che funziona meglio serve a rilanciare sia la domanda (più lavoro quindi stimolo ai consumi) che l’offerta (stimolando maggiori investimenti esteri, come in Spagna, e aumentando la produttività). Ma sul lavoro il governo Renzi ha solo varato un decreto sui contratti a tempo determinato che va in direzione diametralmente opposta rispetto alle idee contenute nel disegno di legge delega che dovrebbe rappresentare il vero e proprio Jobs Act. Il problema è che il decreto, con la nuova prova triennale, rende del tutto improponibile un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti come quello formulato nel disegno di legge delega. Un periodo di prova così lungo spiazza qualsiasi altra tipologia contrattuale nel periodo di inserimento. E dopo un periodo di prova di 3 anni, non si può immaginare di avere un contratto di inserimento che allungherebbe la fase iniziale del contratto a 6 anni, quando l’anzianità aziendale media in Italia è attorno ai 15 anni. Inoltre il decreto aumenta il dualismo nel mercato del lavoro e innalza le barriere che separano i contratti temporanei da quelli a tempo indeterminato, rendendo più difficile la conversione dei primi nei secondi, come evidenziato dai dati sulle comunicazioni obbligatorie del Ministero del Lavoro. I fiumi di parole sulla cosiddetta Garanzia Giovani e l’impegno di prendersi in carico tutti i giovani che non hanno un lavoro e che si registrano al portale sono rimasti tali.
IL DECRETO SULLA PA è un rinvio anch’esso a una legge delega che deve ancora approdare in Parlamento e rinvia a 77 decreti attuativi che devono ancora vedere la luce. Simile il caso dell’abolizione delle Province. Anche il decreto sulla giustizia civile è un guscio vuoto. Potrebbe avere effetti economici importanti nel ridurre i costi di fare impresa in Italia se davvero riducesse l’arretrato, ma lascia fuori le controversie sul lavoro e previdenziali che sono quelle che contano davvero. Lo sblocca-Italia non è una riforma. Semmai rappresenta uno strascico del decreto del fare del Governo Letta, a sua volta con molti predecessori tra cui la famosa legge obiettivo presentata da Berlusconi a Porta a Porta nel 2001. Non servirà neanche come strumento congiunturale per scongiurare il rischio di una nuova prolungata recessione. Gran parte delle opere, infatti, non sono immediatamente cantierabili. Tre quarti di queste potranno, nella migliore delle ipotesi, partire nel 2018. Del resto è lo stesso profilo temporale dei finanziamenti a certificare che non si tratta di misure di impatto immediato: 40 milioni nel 2014, 415 nel 2015, 888 nel 2016.
INSOMMA I PRIMI SEI MESI DI MATTEO RENZI a Palazzo Chigi sono stati per lo più la cronaca di una rivoluzione annunciata. Un lungo elenco di riforme prossime venture, qualche decreto apripista. Per attuare questo programma molto ambizioso, per fare delle riforme vere ci vorrà molta concentrazione e più lavoro e gioco di squadra. Il nostro premier si è rivelato un grande solista, con eccellenti doti di comunicatore anche nello spiegare il significato di misure lontane dal quotidiano di molti italiani. L’unica eccezione, forse, è stata la riforma istituzionale, perché l’impressione è che Renzi non sia riuscito a trasmettere agli italiani il significato del superamento del bicameralismo perfetto. Le riforme che servono davvero per far ripartire l’economia italiana richiedono comunque doti non solo di comunicazione. Più che molti cinguettii, dovremo udire il cigolio dei bulloni svitati e riavvitati e ci dovrà essere molto lavoro oscuro da parte di chi guarda ai piccoli dettagli delle norme e delle procedure senza cadere nelle trappole tese dalle burocrazie ministeriali che mirano a mantenere intatto il loro potere e senza troppi rinvii ai posteri di decreti attuativi. Il Paese bloccato ha bisogno di un nuovo motore. Non basta il volontarismo. Non basta neanche una spinta di fiducia, per quanto poderosa.