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Economia
gennaio, 2015

Ripresa, forse questa è la volta buona Petrolio in calo ed euro debole ci aiutano

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Dopo anni di recessione, l'economia può ripartire grazie al costo ridotto della materia prima. Molto però dipende da chi, in Europa, vincerà lo scontro tra la Bce di Mario Draghi e la Bundesbank tedesca. Perché la Germania deve accettare il rischio di perdere quote di mercato

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Europa e Italia? «Continuano a essere colpite da una domanda interna stagnante». Il Far East? «La frenata dell’economia, soprattutto in città come Hong Kong e Macao, ha avuto un impatto negativo». Le Americhe? Per fortuna che tirano, soprattutto gli Stati Uniti, dove «la crescita dei consumi interni ha alimentato una performance positiva». Ci sono pochi documenti in grado di sintetizzare in poche, semplici parole prospettive e incertezze dell’Italia, così come fa l’ultimo bilancio della griffe Prada, uno dei simboli planetari del Made in Italy.

Quanto peserà la fuga dei ricconi russi dalle boutique delle strade più fashion, dove prosperano i marchi italiani, ora che la crisi ha azzannato il Paese di Vladimir Putin? E quando arriverà il prossimo nababbo pronto ad acquistare un mega-yacht da 300 milioni di euro, come è accaduto a inizio dicembre con l’Ocean Victory, un bestione lungo 140 metri costruito dai cento operai specializzati della Fincantieri di La Spezia e venduto a un armatore il cui nome è rigorosamente top secret? La difficoltà di rispondere a domande come queste spiega la cautela con cui gli esperti guardano l’Italia che sta entrando nel 2015.

Mario Draghi


Poco prima di Natale, il centro studi della Confindustria ha rotto gli indugi e ha provato a mettere sul tavolo una previsione meno tetra di quelle formulate da altri osservatori. Nell’anno che sta iniziando, hanno scritto gli economisti dell’associazione industriale, il Prodotto interno lordo (Pil) potrebbe aumentare dello 0,5 per cento, per poi accelerare fino a segnare una crescita dell’1,1 per cento nel 2016. Sembrano numeri da poco, se paragonati ai tassi di sviluppo a cui sono abituati altri Paesi. Ma basta guardare il grafico riportato qui sotto per rendersi conto di quanto una ripresa - pur minima - cambierebbe il clima rispetto al tran tran degli ultimi anni, che hanno visto il Pil tricolore contrarsi in modo pressoché inesorabile e gli italiani quasi costretti a abituarsi a un progressivo processo di impoverimento.

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In effetti, a dispetto delle tante nubi all’orizzonte, il nuovo anno si apre con alcuni scenari nuovi, che sulla carta potrebbero autorizzare un pizzico di ottimismo. Rispetto a poche settimane fa, ad esempio, il prezzo del petrolio si è ridotto di un terzo: un crollo che ha trasferito di botto un reddito stimabile in circa mille miliardi di dollari l’anno da «un ridottissimo numero di produttori, con enormi ricchezze accumulate, a un’amplia platea di consumatori e imprese dei Paesi avanzati», scrive la Confindustria. Con benzina e metano che costano meno, i Paesi che fondano i loro introiti sulle vendite di idrocarburi come Russia, Iran e Venezuela barcollano, facendo fibrillare i mercati e scatenando le reazioni dei rispettivi governi. Ma per le imprese e i consumatori italiani il guadagno è, in soldoni, di circa 14 miliardi di dollari l’anno.

C’è poi un secondo fattore che spinge a favore della ripresa: nel maggio scorso ci volevano 1,38 dollari per comprare un euro; sette mesi più tardi ne bastano 1,24. La moneta europea sta perdendo valore, e questo dà una mano alle esportazioni, oltre a favorire l’arrivo dagli Stati Uniti di più turisti, che iniziano a battere anche sentieri alternativi rispetto a quelli tradizionali: «Gli ospiti americani aumentano, ora considerano la Puglia come la prosecuzione di una meta per loro abituale come la costiera amalfitana», racconta per esempio Elena Bruno della San Domenico Hotels, catena pugliese di alberghi chic, fra i quali Borgo Egnazia, resort dove si è sposata la coppia di attori Jessica Biel e Justin Timberlake.

Gli effetti del greggio a buon mercato e dell’euro debole, uniti alla crescita del commercio globale (lusso escluso) e del basso costo del denaro imposto dalla Banca centrale europea (Bce), sarebbero dunque in grado di dar vita a una ripresa più sostenuta, vicina al +0,8 per cento del Pil quest’anno e ancor più marcata il prossimo, sostiene la Confindustria. Purtroppo, le incertezze sono altrettanto numerose e costringono ad accogliere con prudenza le rassicurazioni del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che ha battezzato così la legge di Stabilità: «Prevede meno tasse, più reddito, più consumi, quindi più lavoro», ha detto Padoan, che sa quanta credibilità si giocano il governo e il premier Matteo Renzi sulla ripresa, anche in vista di prossime elezioni, anticipate o non.  Gli effetti positivi delle novità, infatti, saranno frenati dai problemi che l’Italia eredita dalla recessione.

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Rispetto al 2007, l’ultimo anno prima del grande freddo, è andato in fumo un milione di posti di lavoro, come si vede dalla figura qui sopra; lo scorso autunno la disoccupazione ha ufficialmente superato il picco del 13 per cento e, se si considera il diffuso ricorso alla cassa integrazione lunga tutta la penisola, il dato reale è ancora più alto, superiore al 14 per cento. Il lavoro, insomma, è poco e questo pesa sui consumi delle famiglie, che dopo il 6,7 per cento perso fra il 2011 e il 2013, nell’anno appena concluso si sono stabilizzati (+0,2 per cento) e ora potranno riprendersi un po’, ma molto gradualmente. Il mercato immobiliare resta imballato e tante persone non riescono a liberarsi di case e appartamenti acquistati quando i prezzi erano alle stelle. Molte fabbriche viaggiano con tassi di utilizzo ridotti e la ripartenza potrà essere affrontata senza grandi investimenti in macchinari, da sempre uno dei settori in cui l’industria italiana si è mostrata più capace. Le difficoltà di diversi mercati di sbocco, come quello russo, rischiano di togliere slancio alle esportazioni di tanti beni, dalla moda agli alimentari. E le banche, infine, rimangono iper selettive quando devono concedere credito. Tutte incertezze che potrebbero essere dissipate da una forte azione politica e monetaria da parte dell’Unione Europea, sulla quale pesano però le divisioni sul modo per favorire il rilancio.

Queste divisioni, oggi, costituiscono il più vorace fra i tarli che stanno erodendo la fiducia dell’intero sistema economico europeo. Perché lo scontro fra il presidente della Bce, Mario Draghi, e il numero uno della tedesca Bundesbank, Jens Weidmann, su come far uscire l’eurozona dalla stagnazione, viene considerato una fonte di instabilità. «Se l’unico collante dell’Eurozona percepito dai cittadini, per l’incapacità dei politici di propagandarne i genuini e numerosi vantaggi, è il costo del suo dissolvimento, allora l’equilibrio su cui si regge la moneta comune è intrinsecamente precario», sostengono gli economisti della Confindustria, convinti che «senza cooperazione per un progetto di crescita, questa precarietà condannerà l’unione monetaria a bassa crescita e alta disoccupazione».

Più della crisi russa o della frenata economica cinese, è proprio questo l’argomento su cui batte in modo insistente la maggior parte degli analisti. Il tema è quello del cosiddetto «allentamento monetario», come in italiano si può tradurre l’espressione inglese di «quantitative easing», nella sua versione più estrema: l’acquisto da parte della Bce di titoli di Stato dei Paesi dell’Eurozona, soprattutto di quelli più a rischio, in modo da alleggerire la morsa del debito pubblico sui loro bilanci e inondare di liquidità il sistema finanziario, nella speranza che si crei quel giusto mix di investimenti pubblici e privati che può scongiurare la stagnazione e accelerare la ripresa. Una misura che, tuttavia, Weidmann e la Bundesbank vedono come il fumo negli occhi, e che Draghi invece ha messo allo studio, considerando anche la possibilità di farla passare con un voto a maggioranza che riesca a superare il veto tedesco.

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Weidmann si è espresso più volte in modo contrario e ha detto apertamente di essere scettico perché questo creerebbe in vari Paesi - e per inciso in Italia - la «tentazione di indebitarsi di più e scaricare le conseguenze sugli altri». «A mio avviso», ha ripetuto  a metà dicembre, dopo l’ennesimo nulla di fatto da parte della Bce, «la politica monetaria nell’Eurozona non è giunta al punto in cui in un programma di “quantitative easing” i vantaggi sarebbero superiori ai costi».

Ci sono analisti come quelli della banca d’investimenti parigina Oddo & Cie che invitano a non attendersi troppi benefici dal riacquisto di titoli di Stato, pur sottolineando che ci sarebbero valide ragioni per metterlo in atto, come il rafforzamento della credibilità della Bce e l’accelerazione della discesa dell’euro. Altri economisti, invece, come quelli del colosso bancario britannico Hsbc, ritengono che i meccanismi della ripresa nell’Eurozona corrano il rischio di essere bloccati dalle tensioni politiche crescenti in Spagna, Francia, Italia e Grecia, un Paese nei confronti del quale le autorità europee sarebbero «acutamente coscienti» degli «immensi rischi» di un’affermazione del partito di sinistra Syriza, che minaccia di bloccare il rimborso del debito ellenico.
E pensano che incertezze politiche di questa portata, in un anno dal calendario ricco di appuntamenti elettorali sia all’interno che all’esterno dell’Unione monetaria, potrebbero spingere le famiglie e le imprese a tenere i borsellini della spesa ben chiusi, contribuendo a un’ulteriore caduta dei prezzi. Se da qui a marzo arrivassero segnali che questo scenario si sta verificando, per la Bce si renderebbe necessario il lancio di un ampio programma di acquisto di titoli, anche governativi, scrive Hsbc. Che non esclude la possibilità di un primo “assaggio” di una politica più espansiva da parte dell’istituzione guidata da Draghi già nella riunione del consiglio direttivo fissata per il 22 gennaio.

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Che cosa farà la Banca centrale europea può sembrare una questione tecnica.  Non lo è. Ne è convinto Sergio de Nardis, capo economista della società di consulenza Nomisma: «Dobbiamo chiederci se quello della Germania per l’euro è amore vero o solo una limitata benevolenza», ha scritto in un rapporto pubblicato il 19 dicembre. Il senso del ragionamento è questo: la cancelliera Angela Merkel insiste perché i Paesi più deboli aggiustino i conti pubblici e facciano le riforme necessarie per migliorare la loro efficienza, seguendo l’esempio di quanto i tedeschi stessi hanno saputo fare negli anni pre-recessione. Ma da allora la situazione è cambiata: la Germania ha visto esplodere le proprie esportazioni verso Francia, Italia, Spagna e così via, proprio perché la moneta unica l’ha protetta dal rafforzamento del vecchio marco, che senza euro avrebbe limitato il boom del Made in Germany.

Oggi, in condizioni diverse, replicare quel modello è impossibile e - con i debiti pubblici alle stelle, i prezzi bassi per tutti e i ridotti consumi interni dell’unico Paese che sta bene, ovvero la Germania - per i concorrenti che arrivano dal Sud Europa recuperare è impossibile. Per questo motivo, dice De Nardis, la Bundesbank e la Merkel devono accettare che l’euro non venga salvato con i sacrifici che faranno i Paesi periferici.

L’allentamento monetario voluto da Draghi, scrive l’economista, potrebbe spingere l’inflazione tedesca verso il 3 per cento (più alta della media europea), frenando un po’ la sua industria. Ma Berlino non può opporsi e deve mostrare «la consapevolezza di far parte di un’unione», senza «far prevalere un interesse nazionale di corto respiro». Perché dal modo in cui si uscirà dalla crisi, scrive De Nardis, dipende ogni speranza della moneta unica di essere accettata dai cittadini europei. 

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