Economia
27 aprile, 2015

Pirelli, storia di una disfatta di gomma

Marco Tronchetti Provera
Marco Tronchetti Provera

Venticinque anni fa Pirelli voleva comprarsi Continental. ?Ora l’azienda tedesca ha un giro d’affari sei volte superiore a quella italiana, che sta finendo ai cinesi. Ed è la metafora del declino del capitalismo nostrano

Marco Tronchetti Provera
Venticinque anni fa, proprio in questi mesi di primavera, Leopoldo Pirelli stava lavorando a quello che doveva diventare il colpo della vita. Aveva iniziato in gran segreto a rastrellare azioni di uno dei principali concorrenti, la Continental, senza che i manager del gruppo tedesco riuscissero a individuare chi faceva salire le quotazioni. «A dispetto di accurate indagini, non abbiamo ottenuto alcuna informazione concreta su un potenziale raider», si era spinto a scrivere nel bilancio annuale, pubblicato in quei giorni, il numero uno dell’azienda di Hannover, Horst Urban.

I sospetti vennero presto fugati. Alla fine dell’estate, il 15 settembre 1990, Pirelli in persona annunciò infatti di essere arrivato al 5 per cento di Continental e di mirare al controllo, con l’obiettivo di mettere insieme i due gruppi e dar vita al quarto produttore di pneumatici al mondo. Una mossa che gli avrebbe permesso di avvicinare una volta per tutte i colossi del settore, la giapponese Bridgestone, la francese Michelin, l’americana Goodyear, proiettando la milanese Pirelli in un futuro che sperava radioso.

La fine di quell’avventura è stata oggetto di infiniti articoli e numerosi libri di storia industriale. Il succo è che i tedeschi si chiusero a riccio per difendersi dall’assalto e la scalata fallì, lasciando alla Pirelli un conto molto salato da pagare. Leopoldo, che all’epoca aveva 65 anni, nipote del fondatore Giovan Battista Pirelli, una fama di imprenditore colto e lungimirante, fu costretto a lasciare la guida dell’azienda di famiglia a Marco Tronchetti Provera, che in seconde nozze aveva sposato la figlia Cecilia. Meno dibattuto è invece il seguito del confronto tra le due concorrenti di allora, la tedesca e l’italiana, i cui frutti si possono vedere nei grafici riportati in queste pagine.

Se nel 1990 la Pirelli poteva ambire a conquistare la Continental, un’azienda che all’epoca aveva più o meno la sua stazza, venticinque anni dopo il gruppo tedesco è diventato un colosso con un giro d’affari da 34,5 miliardi di euro (dati 2014), quasi sei volte più grande della concorrente italiana. Ha attraversato momenti più o meno facili e altri tentativi di conquista, diversificato il proprio business in maniera sostanziale, puntando forte sui componenti meccanici e elettronici per l’industria dell’auto.

I bilanci grondano profitti: solo nel 2014 ha conseguito un risultato operativo di 3,3 miliardi di euro, quattro volte tanto quello di Pirelli. La quale, nel frattempo, da cacciatrice si è trasformata in preda, visto che Tronchetti poche settimane fa si è messo d’accordo per cederne il controllo al gruppo statale cinese ChemChina. Che, nel mondo delle gomme, è poco più di un nanerottolo: il suo marchio Aeolus Tyres nell’ultima classifica mondiale disponibile (relativa al 2013) è infatti relegato in 24esima posizione per valore dei ricavi, ed è solo il settimo fra quelli cinesi.

La storia divergente di Continental e Pirelli è una delle tante che possono raccontare il declino del capitalismo made in Italy. Perché mentre in Italia i colossi industriali - da Montedison a Olivetti, dalla Finsider all’Italtel - sono quasi tutti scomparsi, in Germania e negli altri Paesi europei è accaduto esattamente il contrario. Restando nel settore delle gomme, non c’è soltanto l’esempio del gruppo tedesco. C’è anche il caso della francese Michelin.

Nel 1989, l’anno di partenza del confronto riportato sempre in queste pagine, in termini di fatturato valeva circa una volta e mezza la Pirelli. Era un modello da seguire, al punto che Leopoldo Pirelli con il blitz su Continental puntava proprio ad accorciare le distanze in termini di quote di mercato dal gigante di Clermont-Ferrand, che all’epoca era ancora guidato da François Michelin, terza generazione di una famiglia da sempre dedita alla propria creatura industriale. Ebbene oggi, un quarto di secolo più tardi, la Pirelli di Tronchetti si ritrova rispetto al concorrente transalpino ancora più piccola di quanto lo fosse quella di Leopoldo: sempre in termini di fatturato, vale infatti meno di un terzo, nonostante il 2014 sia stato per Michelin un anno non facile.

Nel difendere la sua scelta di cedere il controllo ai cinesi, in ogni intervento pubblico l’imprenditore milanese , giunto ai 67 anni di età e determinato a restare in sella alla nuova Pirelli italo-cinese, ribadisce che la testa ingegneristica e il cuore produttivo della Pirelli resteranno nella patria d’origine. E sostiene che il motivo per cui l’industria nazionale sta finendo nelle mani di capitali stranieri dipende «dalle scelte di politica industriale del passato che hanno impoverito il Paese. Per decenni», ha detto al “Corriere della Sera”, «abbiamo sentito dire che piccolo è bello, ma il piccolo per crescere ha bisogno della dimensione, che porta a ragionare in grande tutti gli attori del mercato creando una società più aperta».

«NON DOBBIAMO DIPENDERE DA NESSUNO»
C’è certamente del vero in questa analisi. Ma il confronto con le storie di successo di Continental e Michelin racconta anche un altro aspetto della realtà in cui la Pirelli si trova oggi: perché la necessità di mantenere il controllo dell’azienda da parte di Tronchetti ha influito sulle scelte industriali che sono state fatte, imponendo la vendita di interi settori che, se conservati, oggi avrebbero reso la Pirelli un marchio inattaccabile dell’industria tricolore. E forse le avrebbero permesso di tornare all’attacco della Continental, una possibilità che, negli anni recenti, si è ripresentata in ben due diverse occasioni.

Per capire come si sono svolti i fatti è ben però ripartire dal 1990. Come scriveva minaccioso Horst Urban nel bilancio redatto mentre si svolgeva il rastrellamento segreto «una cosa è chiara: nell’interesse dell’azienda e dei suoi lavoratori dobbiamo conservare il potere di prendere le decisioni e di non diventare dipendenti da nessun altro».

Per questo motivo, pur senza aver individuato nel gruppo italiano l’autore del rastrellamento dei titoli in Borsa, Urban aveva operato per blindare il controllo della società, rafforzando i limiti sull’esercizio dei diritti di voto, al fine di neutralizzare i sostenitori su cui, anche all’interno dell’establishment tedesco, Leopoldo poteva contare. Il messaggio era chiaro: prima viene l’integrità e il futuro di Continental, poi gli interessi dei suoi azionisti.

QUANTO VALE LA RICERCA
La storia ha dato ragione alla Continental: stando ai bilanci riclassificati da R&S, l’ufficio studi di Mediobanca, dal 1990 a oggi non c’è stato un anno in cui il gruppo tedesco non abbia incrementato le spese in ricerca e sviluppo, salendo dai 175 milioni di euro del 1990 agli 1,87 miliardi di euro del 2013, ultimo dato disponibile.

Così come sono più che triplicati i dipendenti; e come non hanno mai smesso di crescere i ricavi, fatta eccezione per l’annus horribilis 2009, quando il pil tedesco crollò di quattro punti percentuali. Una battuta d’arresto subito colmata, dato che oggi il gruppo fattura dieci miliardi in più rispetto al 2008, l’anno del fallimento della banca d’affari Lehman Brothers che diede il via alla recessione mondiale: è come se, in un periodo così breve e tormentato, Continental fosse riuscita a dar vita a un’azienda ben più grande della Pirelli attuale.

Un dato ulteriore: il tradizionale settore delle gomme pesa oggi sul business per “soli” 13,6 miliardi, mentre tutto il resto è realizzato nei componenti per auto, un mercato dove la presenza del gruppo è decollata a partire dal 1998, grazie all’acquisizione di un’azienda americana che produceva freni e chassis.

Questa crescita ha ovviamente stuzzicato non pochi appetiti, anche in Germania. Qualche anno fa un altro gruppo metalmeccanico tedesco, la Schaeffler, ha comprato il 90 per cento di Continental per 12 miliardi di euro, con l’obiettivo di fondere le due società, scaricando nella ricca preda i debiti fatti per prenderne il controllo. Le resistenze contro il progetto, però, hanno avuto la meglio e la fusione non si farà: Schaeffler ha gradualmente ridotto la partecipazione al 46 per cento. E, pur restando il maggior azionista, nel consiglio di sorveglianza - che nomina il comitato esecutivo dell’azienda - esprime soltanto cinque rappresentanti su venti. Anche se gli assetti proprietari sono mutati radicalmente dai tempi della vecchia battaglia del 1990, dunque, qualcosa della vecchia autonomia gestionale sbandierata da Horst Urban contro Leopoldo Pirelli sembra essere rimasto ben impresso nel Dna dell’azienda. Così come accade nell’altro grande costruttore europeo, Michelin, dove l’unico discendente della famiglia fondatrice negli organi di controllo del gruppo è il presidente del consiglio di sorveglianza, Michel Rollier, che fin dal 2012 ha lasciato la gestione dell’azienda a un manager esterno, Jean-Dominique Senard.

Tronchetti in Pirelli è in sella dal 1991, quando cominciò a lavorare al piano di risanamento del gruppo, caratterizzato da una catena di controllo molto macchinosa e da un elevato indebitamento. Leopoldo si era infatti impegnato a indennizzare i compagni di cordata che lo avevano affiancato nell’avventura tedesca, dovendosi così sobbarcare un onere di 337 miliardi delle lire di allora. Vennero messe in vendita le attività diversificate, perché la storica azienda milanese all’epoca produceva di tutto, dai gommoni ai materassi, dalle scarpe da tennis Superga a diversi componenti in gomma per l’industria dell’auto.

I conti vennero rimessi a posto ma, dal punto di vista delle quote di mercato Pirelli non brillava: stando ai dati elaborati da Tire Business Report, dal 1990 al 2000 tra i big del settore il gruppo è quello che ha perso maggiormente in quote di mercato, scendendo dal 6 al 3 per cento circa.

In quel periodo in realtà Tronchetti non sta fermo: investe nell’immobiliare, nei cavi per telecomunicazioni e energia ma, allo stesso tempo, cede agli svedesi della Trelleborg lo stabilimento di Tivoli dove si producono le grandi gomme destinate alle macchine agricole e al settore delle costruzioni. Un business che decide di abbandonare e che, invece, gli svedesi fanno fiorire, portandolo nel 2014 a 490 milioni di euro di fatturato, con margini di profitto da sogno per un’attività industriale.

È proprio in quel periodo che si ripresenta l’ipotesi di acquistare gli pneumatici Continental, da cui i tedeschi meditano di uscire per sostenere le forti necessità d’investimento nel settore dei componenti auto, dove si sono lanciati all’inseguimento di un altro colosso germanico, la Bosch. Tronchetti, però, ha ormai in mente altro: con i miliardi di euro (3,3) incassati dalla vendita di alcune attività nella fibra ottica all’americana Corning si lancia alla conquista di Telecom Italia, un’avventura che finirà per mettere in ginocchio Pirelli.
chemchina

SUPERATA DA PRYSMIAN
A livello operativo, in realtà, quando il numero uno si trasferisce al gruppo telefonico, Pirelli accelera in un percorso che darà buoni frutti: punta con decisione sulle gomme più prestazionali, premium come si chiamano in gergo, nonché sui mercati a maggiore crescita, dall’Asia all’America Latina.

Tra il 2000 e il 2010 il mercato globale esplode, passando da 70 a oltre 150 miliardi di dollari, che diventeranno 200 alla fine dello scorso anno. A cogliere l’onda sono soprattutto i produttori cinesi e asiatici, che rosicchiano quote di mercato ai nomi più conosciuti.

Perdono terreno (sempre relativamente agli altri) Bridgestone, Michelin, Goodyear, resta al palo Continental. Pirelli invece guadagna. Il successo, tuttavia, incide in misura marginale sulle dimensioni del gruppo. Perché nel 2005 Tronchetti per far fronte alle difficoltà causate dall’operazione Telecom è costretto a cedere per 490 milioni la Pirelli cavi, da sempre una delle anime più importanti del gruppo. Se la compra la banca Goldman Sachs nell’ambito di un’operazione finanziaria che, in quegli anni, farà la sua fortuna: oggi l’azienda, ribattezzata Prysmian, ha un giro d’affari superiore a quello di Pirelli e in borsa vale, complessivamente, 3,9 miliardi.

Soprattutto, però, i guai finanziari originati da Telecom, da cui Tronchetti è costretto a uscire nel 2007, rendono difficile cogliere le occasioni che si presentano. Le banche, in quegli anni, lavorano su diversi dossier. Uno è la possibile acquisizone di Nokian Tyres, un marchio finlandese che spacca con le gomme da neve, diventando un modello per l’intero mercato.

L’altro è, di nuovo, Continental: la cessione del settore pneumatici torna d’attualità nel 2008, quando in Germania sono alle prese con il rompicapo dell’ipotesi di fusione con Schaeffler. Se l’operazione andasse in porto, un modo per ripianare i debiti del nuovo aggregato sarebbe proprio cedere le gomme.

Difficile dire se queste idee si siano mai trasformate in un’opzione concreta. Sta di fatto che la quota di Pirelli su cui Tronchetti può contare, pari a circa un quinto di quel 25 per cento racchiuso nella cassaforte Camfin, dove lui è affiancato dalle banche e dagli alleati di turno, è troppo modesta per garantirgli il controllo, se si dovesse affrontare una fusione o un aumento di capitale.

La preoccupazione è, piuttosto, trovare nuovi soci che puntellino il sistema. Al suo fianco si susseguono prima la famiglia Malacalza, poi il fondo Clessidra, la russa Rosneft e, infine, ChemChina, che esige la maggioranza, offrendo a Tronchetti la possibilità di comandare per altri cinque anni. Lui accetta. Ma, anche qui, tutto passerà per una vendita: le gomme per camion, che usciranno dal gruppo per passare sotto il diretto controllo dei cinesi. A Pirelli resteranno gli pneumatici premium. Speriamo che bastino.

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