Carriere più rapide. Incarichi a tempo. Promozioni basate sul merito. La banca centrale cambia le regole per i dirigenti. Grazie a un accordo che spacca i sindacati
di Luca Piana
15 marzo 2016
BankitaliaRivoluzione. Usare termini così forti, quando si parla di un’istituzione dai meccanismi di funzionamento delicati com’è la Banca d’Italia, può sembrare un azzardo. Eppure, lo scorso 29 febbraio, è stata proprio questa la parola scelta da alcuni dei sindacati interni per descrivere l’auto-riforma appena firmata con i vertici dell’istituto guidato da Ignazio Visco. Dopo un’attesa durata vent’anni e diversi tentativi falliti, nella banca centrale dove sono cresciute o si sono affermate figure chiave dell’establishment nazionale, da Carlo Azeglio Ciampi a Mario Draghi, sta infatti per cambiare il modo in cui dirigenti e funzionari faranno carriera. Gli obiettivi dell’accordo appena sottoscritto - che sarà a breve sottoposto al Consiglio superiore - sono diversi. Spicca l’idea di premiare maggiormente il merito, di introdurre un limite di sei anni per gran parte delle posizioni di rilievo organizzativo, di sbloccare la crescita professionale dei più giovani, che da tempo vedono le loro ambizioni frustrate da una gerarchia «di stampo militare», di dare ai neo assunti - che oggi spesso entrano in Bankitalia con un prestigioso curriculum di studi internazionali - la possibilità di arrivare a posti di responsabilità in tempi più brevi, paragonabili a quelli delle altre banche centrali europee.
La riforma, o appunto la rivoluzione, agli occhi dell’opinione pubblica è però interessante anche per alcuni aspetti che non riguardano unicamente i dirigenti e i funzionari dell’istituto. Il primo è la questione generazionale, che ha pesato in maniera determinante su una firma arrivata dopo anni d’impasse, al punto che non è eccessivo parlare di un cambiamento voluto dai giovani.
Il secondo aspetto è invece la speranza che l’accordo contribuisca a risolvere una questione che i vertici della banca non hanno mai ammesso pubblicamente ma che, all’interno, è molto sentita. E cioè il fatto che l’Italia, nel nuovo sistema bancario europeo, in questi anni non è sempre riuscita a difendere adeguatamente i propri interessi. Un indizio per tutti viene dalla composizione del vertice Single supervisory mechanism (Ssm), il sistema di vigilanza della Banca centrale europea che dal 2014 ha accentrato a Francoforte i controlli sugli istituti di credito, almeno quelli di grandi e medie dimensioni.
SCONTRO GENERAZIONALE
Se la numero uno è Danièle Nouy, francese, i quattro direttori generali sono uno spagnolo, un finlandese e due tedeschi. Mentre tra i capi divisione gli italiani sono solo quattro su 27. Una «sotto-rappresentazione», come la definiscono alcuni, che almeno in parte dipende dai vincoli economici e professionali che in questi anni hanno frenato il trasferimento degli uomini di Bankitalia là dove oggi conta essere. Vincoli che, come vedremo, ora verranno meno.
Il fatto che la riforma nasca da uno scontro generazionale si può intuire già da un primo fatto. L’accordo di febbraio è stato firmato grazie a una trattativa condotta da due soli sindacati, uno storico, la Cida, che rappresenta soltanto il personale direttivo, l’altro fondato appena sette anni fa, la Dasbi, nato all’interno di Bankitalia per rappresentare gli interessi dei più giovani e caratterizzato fin dall’inizio dalla voglia di rinnovare le burocrazie dell’istituto. Ancora oggi, per dire, la Dasbi conta fra i propri iscritti appena una manciata di persone che abbiano superato i cinquant’anni d’età. Al momento non hanno firmato - nemmeno per adesione, come ha fatto la Cisl - le grandi organizzazioni, Cgil e Uil in testa, oltre alla potente Falbi, il sindacato autonomo guidato dal “Leone di via Nazionale”, come viene chiamato il segretario Luigi Leone, in sella dal 1995 nonostante sia pensionato ormai da anni.
La battaglia si trasferisce ora all’accordo per il rinnovo delle carriere di chi non ha ruoli direttivi, i cosiddetti “operativi”, quasi il 70 per cento dei settemila dipendenti. Per loro, la piattaforma di rinnovo è molto meno innovativa e i mal di pancia sono tanti. Per i dirigenti, la questione dello stallo generazionale nasce negli anni Novanta, ai tempi della riforma del sistema pensionistico. All’epoca, come in tutta la pubblica amministrazione, era elevato il numero di chi lasciava il lavoro con soli 19 anni di contributi. Nel tempo quel limite è stato spostato a 42 anni e alcuni mesi, e questo ha finito per bloccare una delle valvole di sfogo che favorivano il ricambio e che permettevano, quando a capo di un ufficio finiva una persona inadatta, di effettuare sostituzioni senza troppi traumi. La banca per anni ha reagito a questo cambiamento con un riflesso tipico degli uffici pubblici. Visto che gli aumenti di stipendio erano legati alle promozioni funzionali, sono state aggiunte nuove posizioni gerarchiche. In seguito i dirigenti in soprannumero sono stati assegnati in staff ad altri, infine alcuni uffici sono stati spacchettati più con l’obiettivo di aumentare le posizioni dirigenziali, invece che per una reale necessità. Impossibile dire se la moltiplicazione degli uffici abbia influito sulla rapidità delle decisioni della banca, che per diversi osservatori esterni sembra aver reagito con lentezza alle sfide poste dalla nuove normative europee, a cominciare dal bail-in. Il dubbio, però, rimane.
IL CLUB DELLE “A”
Ora la riforma affronta alla radice il problema, con diverse novità. Le posizioni gerarchiche vengono sfoltite e viene prevista la possibilità, per chi svolge funzioni professionali, di veder aumentare la propria retribuzione anche senza passare da un gradino all’altro della carriera dirigenziale, se si svolgono compiti professionali di responsabilità crescente. Il cambiamento più appariscente, però, è la scomparsa del mega-concorso per chi vuole far carriera, nel gergo di Bankitalia chiamato “convegno” e considerato una specie di incubo da molti. Oggi funziona così: chi decide di affrontarlo deve mettere in conto di rallentare la propria attività lavorativa per molte settimane, perché l’esame riguarda l’operatività della banca a 360 gradi, non i compiti che ognuno effettivamente svolge. Le votazioni, poi, vanno dal massimo di “A” a un minimo di “F”.
Se becchi gli ultimi due voti, puoi dire addio alle speranze di progredire. Se entri nelle prime tre posizioni, sei dentro, almeno in teoria. Oggi però le “A” sono merce rarissima, mentre fino a qualche anno fa diversi potevano vantarsi di aver ottenuto il voto massimo. Fra questi, si racconta, c’erano Ciampi e Tommaso Padoa-Schioppa, arrivati in seguito a responsabilità di governo, ma pure economisti di fama riconosciuta anche all’esterno della banca, come Fabrizio Barca e Pierluigi Ciocca. Se qualche “B” capita ancora, oggi il più diffuso voto utile per diventare dirigente è la “C”, mentre fioccano moltissime “D”, che non sono una bocciatura definitiva ma costringono a riprovarci. Il problema è che un tempo, prima che i ranghi si ingolfassero del tutto a causa della mancanza di ricambio, avere una “D” era sufficiente per farcela, mentre passare con “C” significava avere rapidamente un nuovo incarico. Ora invece si entra in una graduatoria che comporta ulteriori lunghe attese. «Uno dei problemi è che tutti, oggi, vengono assunti come coadiutori, una posizione che non fa ancora parte della carriera direttiva ma dove entrano ragazzi con un curriculum fortissimo, che magari hanno ottenuto un PhD all’estero», dice Stefano Barra, presidente della Cida, il sindacato dei dirigenti che ha firmato l’accordo. «Se però questi giovani devono aspettare anni prima di arrivare a incarichi di responsabilità, c’è il rischio che perdano il meglio delle loro caratteristiche formative», continua Barra, secondo il quale oggi c’è una “coda” di circa 200 persone in attesa di diventare dirigente, a fronte di circa 25 posti disponibili l’anno.
Il nuovo sistema, dunque, abbandona il concorso e punta sulla valutazione decentrata del lavoro svolto, basata sull’osservazione diretta da parte dei responsabili degli uffici. Gli obiettivi di ogni singola persona verranno concordati con il proprio capo, pescando da un “serbatoio” - come viene chiamato nei documenti - di modelli curato dal personale, in modo da evitare ingiustizie che potrebbero derivare da piani troppo cervellotici, impossibili da conseguire fin dalla partenza, oppure obsoleti. Con le vecchie regole, passare dall’assunzione al grado di condirettore richiedeva sulla carta almeno 13 anni, ma nessuno ce la faceva in meno di 20 anni, al di là di rarissime eccezioni. Con la riforma, sulla carta il percorso minimo dura 11 anni, e la speranza è quella di avvicinare molto tempi reali a quelli teorici.
SUPERATI DAGLI SPAGNOLI
Un altro aspetto che piacerà alle nuove generazioni riguarda l’accresciuta possibilità per i dipendenti di Bankitalia di giocarsi le loro carte in Europa. Può sembrare incredibile, visto il lungo processo di avvicinamento all’Unione vissuto dall’Italia e l’importanza delle decisioni che vengono prese tra la Commissione europea e la Bce, ma finora chi voleva passare alla Bce doveva essere enormemente motivato sul piano personale. Primo, perché fino a poco tempo fa i contributi versati da Francoforte non facevano maturare la posizione previdenziale presso l’Inps. Secondo, per un fatto ancora più duro da digerire: se uno lasciava Roma e in Bce faceva carriera, una volta tornato in Bankitalia doveva ripartire dall’inquadramento lasciato a suo tempo. Una tagliola che amputava le velleità di chi, dopo qualche anno, pianificava un rientro, magari per motivi familiari. «Ora i colleghi che rientreranno dall’aspettativa utilizzata per assumere altri impieghi, in Italia o all’estero, beneficeranno di un meccanismo di ricostruzione della carriera che riconoscerà un passaggio di livello economico per ogni biennio trascorso all’esterno», spiega Alfredo Bardozzetti, segretario della Dasbi. E questa è la base, perché, a seconda «della durata e della rilevanza dell’incarico fuori banca l’incremento di stipendio potrebbe essere più ampio, o magari determinare un passaggio di carriera», continua Bardozzetti. Il quale, in generale, con il suo sindacato sta già studiando come estendere le conquiste appena ottenute: «Quando avremo potuto verificare gli effetti positivi di questa riforma, certi aspetti potranno essere ulteriormente migliorati», dice.
Chissà come sarebbe andata con la nuova vigilanza europea, se la riforma fosse già stata attuata. Basta infatti ancora il caso Ssm, per dare un’idea di come l’Italia si sia forse giocata male le sue carte. Nel 2014 la Finlandia ha ottenuto uno dei quattro direttori generali perché ha mandato a Francoforte Jukka Vesala, numero due dell’Autorità di supervisione finanziaria di Helsinki. La Spagna si è giocata addirittura il numero uno della sorveglianza della banca centrale, Ramón Quintana. E nessuno ha avuto nulla da obiettare, nonostante nel 2012 proprio Madrid, per salvare le sue disastrate casse di risparmio, avesse ottenuto un prestito di 37 miliardi dal fondo Salva-Stati. Finanziato anche dall’Italia, che tre anni dopo non ha potuto aiutare gli obbligazionisti delle quattro banche commissariate.