Nato nel 2011, doveva aiutare le aziende più promettenti con i soldi pubblici. Ora, dopo varie operazioni discusse, sarà riorganizzato. Ecco come

Maurizio Tamagnini
Doveva essere lo strumento per dare vita a una nuova forma di capitalismo nutrito e fatto crescere dallo Stato. Gli obiettivi, stando agli annunci, erano infatti altissimi: aiutare «lo sviluppo del sistema economico italiano», investendo denaro pubblico in promettenti aziende private, pronte a spiccare il volo per diventare colossi globali. A meno di cinque anni dalla nascita, avvenuta per legge il 3 maggio 2011, per il Fondo strategico italiano (Fsi) sembra tuttavia essere già arrivato il momento dei ripensamenti, al punto che nel giro di poche settimane dovrebbe partire un profondo riassetto. Se tutto cambia in così breve tempo, significa che nel «fondo sovrano» italiano, come a volte viene chiamato, qualcosa non deve aver funzionato, a dispetto delle ambizioni iniziali e del rilevante peso specifico dei soci imbarcati a suo tempo dal governo Berlusconi, due istituzioni come la Banca d’Italia e la Cassa depositi e prestiti (Cdp), la società del Tesoro che gestisce il risparmio postale degli italiani.

Il nucleo della riforma a cui stanno lavorando tra gli altri Claudio Costamagna e Fabio Gallia, i nuovi vertici della Cassa, l’azionista di gran lunga più importante (ha il 77 per cento delle quote del Fondo), è una specie di spezzatino che dividerà per grado d’importanza le varie imprese in cui sono stati investiti denari pubblici. Ci sarà un primo livello, a cui verrà destinata gran parte delle aziende in cui il Fondo è entrato finora, che si spera di portare alla quotazione in Borsa in tempi rapidi. Il secondo livello è rappresentato invece da quelle società che resteranno sotto l’ala protettiva del sistema pubblico più a lungo, perché ritenute maggiormente «strategiche». Ai primi due, va poi aggiunto un terzo livello, costituito dalle partecipazioni più scottanti, sia dal punto di vista politico che finanziario.

Un esempio può essere il 26,3 per cento posseduto dalla Cassa (e non dal Fondo) nella compagnia petrolifera Eni o il pacchetto azionario che Costamagna e Gallia potrebbero acquistare nell’Ilva, se andasse in porto la cordata pubblico-privata allo studio per dare un futuro all’acciaieria di Taranto. Anche se nessuno lo dice in modo esplicito, il motivo del riassetto sta, probabilmente, negli errori che il governo di Matteo Renzi ritiene abbia commesso il nuovo capitalismo di Stato. E che ora, con la nuova gestione di Cassa e Fondo, si cercherà di correggere.


I DEBITI E IL BRAND DI SIR ROCCO 

Un esempio che ha fatto molto rumore sono stati i 76 milioni di euro che Fsi ha investito nel dicembre 2014 per acquistare una quota di minoranza (il 23 per cento) in una catena di alberghi di lusso, la Rocco Forte Hotels. A dispetto del nome, sia la società sia il suo proprietario, Sir Rocco Forte, hanno infatti passaporto britannico. E anche se tre dei suoi undici hotel sono in Italia, tutti realizzati o acquistati in precedenza, è davvero difficile sostenere che i quattrini del Fondo siano serviti, almeno finora, per avviare quel «piano di sviluppo incentrato» sul nostro Paese sbandierato all’epoca della firma dall’amministratore delegato di Fsi, Maurizio Tamagnini. Nei giorni in cui l’accordo veniva concluso, come aveva rivelato “l’Espresso”, la Cdp aveva individuato quattro edifici di grande rilievo storico, a Venezia e sul Lago di Garda, a Bergamo e a Torino, che avrebbero potuto essere trasformati in alberghi affidati a Forte. Da allora però il progetto è svanito nel nulla. In un periodo in cui gli investimenti stranieri nel settore alberghiero sono stati molteplici, dal celebre Westin Excelsior di Roma, acquistato dalla qatariota Katara Hospitality, allo storico palazzo della Zecca, sempre nella capitale, che Cdp ha venduto alla catena cinese Rosewood per farne un extralusso, il gruppo britannico in Italia non ha più toccato palla. Si dice che, ora, il radar di Forte e del Fondo strategico sia di nuovo acceso e che punti sulla costiera amalfitana e sulla Sicilia, oltre che sulla sempreverde Venezia. Ma il punto è capire se il gruppo inglese avrà le risorse per muoversi.

Se si guarda l’ultimo bilancio che la Rocco Forte Hotels Limited ha depositato a Londra, relativo all’anno chiuso il 30 aprile 2015, si vede che tra gli sviluppi futuri dell’attività sono citate soltanto due strutture, a Jeddah, in Arabia Saudita, e a Shanghai, in Cina. Degli accordi con il Fondo strategico viene citata soltanto l’iniezione di denaro fresco da 76 milioni di euro, che sembra aver aiutato il gruppo britannico a rinegoziare i debiti con le banche, la scozzese Bank of Scotland e le italiane Unicredit e Bpm. Tuttavia, a dispetto di quei soldi, l’indebitamento bancario resta elevato, 205 milioni di sterline, un valore superiore ai ricavi di un anno (174 milioni di sterline). Da notare che, l’anno scorso, il gruppo alberghiero ha acquistato da un’altra e quasi omonima società personale di Forte, la Sir Rocco Forte Limited, il marchio “Rocco Forte” per 4 milioni di sterline, «pagabili in dieci rate annuali». La prima rata, informa il bilancio, è stata pagata al baronetto di origine italiana nel marzo 2015, quando Fsi era già azionista della catena alberghiera.

Un’altra operazione che, fin dall’annuncio ha suscitato perplessità è l’accordo con Luigi e Vincenzo Cremonini, padre e figlio, proprietari di uno dei maggiori gruppi industriali italiani nel settore alimentare, con un giro d’affari da 3,2 miliardi di euro. Qui però bisogna fare un passo indietro e tornare al marzo 2013, quando il Fondo dà vita a una società comune con Qatar Holding, il fondo sovrano dell’emirato arabo. La società viene battezzata IQ Made in Italy Investment Company e i due soci si impegnano a dotarla di mezzi finanziari per 300 milioni subito e per due miliardi nel giro di quattro anni, destinati a investimenti nei settori trainanti dello stile italiano, il cibo, la moda, il design, il lusso. Ci vuole più di un anno perché la società italo-araba faccia il primo investimento, rilevando per 165 milioni il 28,5 per cento di Inalca, società del gruppo Cremonini che lavora e commercializza carni bovine. Può sembrare un po’ bizzarro associare il Made in Italy, nelle sue componenti più di lusso, alle carni macellate a livello industriale.

Ma il punto non è tanto questo. I quattrini versati dal Fondo e dal socio qatariota finiscono solo in parte in Inalca, mentre per quasi un terzo (50 milioni) vanno direttamente nelle casse della holding dei Cremonini, che vende alla joint venture IQ dei titoli Inalca di sua proprietà. E, con quelli e con altri fondi, nel bilancio 2014 può annunciare con soddisfazione di aver ridotto i propri debiti finanziari da 961 a 711 milioni. Altro passaggio delicato: tra i maggiori progetti di sviluppo, nei documenti Inalca cita in modo particolare quelli in Russia, dove ha aperto un nuovo macello. Un fattore certamente positivo, perché è sull’internazionalizzazione che l’industria si gioca il futuro. Ma che, dal punto di vista di un investitore teso a favorire la crescita economica italiana come dovrebbe essere il Fondo strategico guidato da Tamagnini, qualche perplessità la suscita. Perché, come ha detto lo stesso Vincenzo Cremonini in un’intervista, solo il 20-25 per cento dei prodotti distribuiti in Russia arriva dall’Italia. Un Paese, il nostro, che peraltro importa dal resto d’Europa gran parte dei bovini vivi che vengono poi macellati e destinati alla grande distribuzione.

Altre aziende fra quelle partecipate da Fsi mostrano, comunque, di aver saputo innescare un processo di crescita importante. Un caso è quello della pavese Valvitalia, un gruppo che costruisce valvole e altre apparecchiature destinate all’industria del petrolio, del gas e dell’acqua. Nel 2014, data dell’ultimo bilancio disponibile, il fatturato era di 419 milioni. Tra le novità era segnalata l’acquisizione della Silvani di Como, un’azienda che produce sistemi anti-incendio e la cui proprietà era finita all’estero, all’americana United Technologies.


IL PLASMA DEL SENATORE PD 

Un altro esempio è quello della Kedrion di Castelvecchio Pascoli, in provincia di Lucca. La Kedrion produce e distribuisce farmaci derivati dal plasma umano che servono per trattare persone colpite da malattie come l’emofilia o da immuno-deficienze. Negli ultimi anni è cresciuta a tappe forzate, con ricavi saliti da 378 a 466 milioni tra il 2012 e il 2014, grazie anche alla forte espansione negli Stati Uniti. Dal punto di vista di un Fondo pubblico, il caso Kedrion presenta però alcune particolarità. La prima è che la proprietà fa capo alla famiglia Marcucci, non proprio degli sconosciuti a livello politico, visto che Marialina Marcucci è stata vice-presidente della Regione Toscana e il fratello Andrea è senatore del Pd. Il secondo è che parte del successo lo deve probabilmente al fatto di aver potuto finora operare, in Italia, in un ambito protetto. Kedrion, infatti, opera in esclusiva per conto delle Regioni nel mercato della lavorazione del plasma, processato e trasformato in prodotti finiti nei suoi stabilimenti, prima di essere restituito alle Regioni stesse. I concorrenti stranieri bussano da tempo alle porte dell’Italia e, già nel 2005, avevano ottenuto una legge che in teoria apriva il mercato. Sta di fatto che i decreti attuativi sono arrivati solo nel 2012, mentre è stato necessario attendere il dicembre 2014 per avere il decreto ministeriale che «specifica società e impianti autorizzati a lavorare plasma italiano», spiega il bilancio della stessa Kedrion.

Con la riorganizzazione del Fondo, Kedrion e Valvitalia finiranno - con l’obiettivo di essere quotate, permettendo all’azionista pubblico di uscire - in una società di gestione, che continuerà lo scouting di aziende ad alto potenziale e che sarà aperta anche a terzi, a cominciare dalla Kuwait Investment Authority, che già da tempo affianca Fsi. Con loro finirà anche la quota di partecipazione nella Trevi, la società d’impianti che ha ottenuto l’appalto per ricostruire la diga di Mosul, in Iraq, e in cui il fondo è entrato nel dicembre 2014. Un investimento, al momento, non fortunato, visto che in Borsa il titolo ha sofferto per il tracollo delle spese negli impianti petroliferi, uno dei suoi business principali. In proposito, però, l’avventura più bruciante è la prima avviata dal Fondo dopo l’arrivo di Costamagna e Gallia al vertice dell’azionista di riferimento, la Cdp.

Fsi ha rilevato dall’Eni il 12,5 per cento della società di perforazioni Saipem, che poco dopo ha effettuato un mega-aumento di capitale, crollando in Borsa. Al punto che oggi la partecipazione in mano a Fsi, pagata 463 milioni, vale poche decine di milioni. La Cassa e il Fondo hanno dovuto trangugiare il rospo, perché Saipem faceva gola alla Russia, che ambiva alle sue tecnologie per rendersi indipendente nell’estrazione del petrolio. E perché oggi la Saipem rappresenta molto per il sistema Italia, visto che vi trovano lavoro una fetta consistente degli ingegneri che escono dai Politecnici italiani, Milano e Torino in primis. Per questo finirà nel pacchetto di partecipate strategiche, che faranno capo alla sola Cdp, senza finanziatori terzi, che mal digerirebbero minusvalenze così consistenti. Con Saipem, nel nuovo fondo strategico ci sarà anche la fibra ottica di Metroweb, al centro dello scontro fra Telecom e i gruppi stranieri sugli investimenti per realizzare la banda larga, oltre quel che resta di Ansaldo Energia, che Fsi ha in parte già ceduto alla Shanghai Electric Corporation. Strano paradosso: uno degli ultimi baluardi del capitalismo di Stato già oggi parla un po’ cinese.