Da quando ha preso il comando dell’azienda di famiglia, il capo della bolognese Ima ha accelerato sulla diversificazione. Comprando in Italia e all’estero. E ha creato una multinazionale dei macchinari per il packaging, con 34 stabilimenti, che l’anno scorso ha superato il miliardo di fatturato

Alberto Vacchi
Nel suo ufficio, spazioso e con vista sulla campagna, c’è anche la riproduzione di un dipinto di Miró. Alle spalle della sedia di Alberto Vacchi, però, campeggia una maxi-foto, virata seppia, della prima fabbrica di macchine per il confezionamento delle bustine di tè.

L’impianto stava esattamente qui, al numero 428/442 della via Emilia a Ozzano dell’Emilia, 20 chilometri a est di Bologna, verso Imola. E qui sta ancora. La palazzina direzionale, quartier generale del gruppo Ima, è stata rimessa a nuovo ma sotto il pavimento dell’ufficio di Vacchi si costruiscono ancora i macchinari per confezionare il tè nelle bustine.

Un business in cui la famiglia Vacchi è entrata nel 1963 - un anno prima della nascita dell’aspirante presidente di Confindustria - e che non ha mai abbandonato. E mai abbandonerà, perché, come spiega il direttore ricerca e innovazione di tutto il gruppo, Dario Rea, «è quello che, percentualmente, fa più margini di tutti». Peccato sia relativamente piccino. Il mercato delle produzioni di qualità, in questo campo, vale circa 100-120 milioni l’anno. Ima è la regina assoluta di questo campionato, una potenza, con i suoi 70-80 milioni annui di ricavi, e piazza le sue attrezzature sforna-bustine a tutti i grandi del settore, dalla celebre Twinings a tedeschi, russi e asiatici.

Ora la romantica area di business da cui tutto cominciò si chiama Tea & Herbs. Tisane e tè aromatici valgono meno di un decimo del giro d’affari di un gruppo che è diventato un colosso nel campo dei macchinari per il packaging di alimenti, che pesa poco più della metà di un fatturato che nel 2015 ha superato di slancio il miliardo di euro. Se chiedete a Vacchi qual è stata la scelta che lo rende più orgoglioso, la risposta è immediata: «Entrare nel capitale dei nostri fornitori di prima fascia, per rafforzarli e aiutarli a riportare in Italia una serie di lavorazioni».

L’idea, racconta, è stata di Massimo Marchesini, il direttore dei Sistemi produttivi di Ima. Uno dei fedelissimi di Vacchi, che misura costantemente il polso dei fornitori: «Le società partecipate da Ima, con quote del 20-30 per cento, sono una quindicina e nel periodo 2008-2016 sono passate complessivamente da 17 a 124 milioni di fatturato, aumentando l’occupazione da una media di 3-4 addetti a 17-18». Ora i lavoratori totali di questa pattuglia di ancelle, guidate da due imprese capo-filiera (Logimatic e Iema), sono oltre 900. «Con il nostro intervento le abbiamo aiutate a investire nei processi, a crescere, a essere finanziariamente più solide. Con vantaggi per loro, per il territorio e per noi». La maggioranza sta nel raggio di 50 chilometri. Vicinissimo all’head quarter, meno di un chilometro in direzione ovest, sempre sulla via Emilia, c’è il secondo storico sito di Ima, sede di altre due divisioni del settore farmaceutico, Ima Active e Ima Safe.

Non è facile capire chi fa cosa, sul pianeta farmaceutico dell’Ima: dalle macchine per riempire i medicinali liquidi alle blisteratrici e alle astucciatrici. Anche un profano capisce comunque che qui a Ozzano sono in grado di rispondere a tutte le esigenze dell’industria, dalla singola attrezzatura alla linea completa che può costare più di venti milioni e che talvolta richiede mesi per essere montata nella fabbrica dei clienti. Il gruppo spende il 5 per cento del giro d’affari in ricerca e sviluppo e c’è pure la Tablet Academy dove, a dispetto del nome, non ci si occupa di iPad ma di studiare come migliorare i macchinari che producono compresse d’ogni genere.

Cacciatore, tifoso del Bologna, assai poco mondano e molto mattutino (si alza alle 5:45 e corre per tre quarti d’ora), sposato e padre di un ragazzo, Alberto Vacchi è entrato in azienda nel 1992, partendo proprio dal tè. Nel 1996, un anno dopo la quotazione in Borsa, è diventato amministratore delegato. Aveva 32 anni e la Ima fatturava 70 milioni di euro. Gli stabilimenti sono passati in pochi anni da 10 a 34. Il più importante shopping nella storia del gruppo è scattato a cavallo tra il 2014 e il 2015, quando Ima ha messo sul piatto 70 milioni per cinque aziende tedesche - con impianti anche in Francia, Spagna e India - specializzate nella progettazione e costruzione di linee produttive per confezionare alimenti. Le nuove arrivate hanno contribuito a fare del gruppo emiliano uno dei principali player mondiali nel packaging alimentare, con otto stabilimenti. Uno dei quali è quello storico della Corazza (rilevata nel 2010 sganciando 57,5 milioni), che fa macchine per il dosaggio e il confezionamento di formaggio fresco, burro, margarina, dadi da brodo.

La campagna acquisti di Vacchi non si ferma più. Pochi giorni fa, il cacciatore ha messo a segno un altro doppio colpo, rilevando le attività della Komax, sempre tedesca, nell’assemblaggio di inalatori, siringhe, apparecchi per le iniezioni d’insulina, e quelle della piemontese Telerobot, forte nell’assemblaggio di materiali plastici nel settore dei tappi e delle chiusure di flaconi. E che l’imprenditore petroniano abbia tutta l’intenzione di allargare il suo impero del packaging lo conferma il fatto che, all’assemblea per l’approvazione del bilancio 2015, sarà chiesto ai soci di dare al consiglio di amministrazione la delega per varare un aumento di capitale. Opzione funzionale all’attrazione di capitali per dotarsi di ulteriori munizioni per l’espansione.

Vacchi è un tipo sportivo ma non ama il pugilato, almeno nelle relazioni industriali. «Lo stile dell’azienda è assolutamente “no fighting”, c’è la massima tendenza alla condivisione degli obiettivi», assicura Massimo Ferioli, direttore dell’organizzazione, in Ima dal 1997. «Stile che abbiamo mantenuto anche negli ultimi anni, anche se grazie alla crescita interna e alle acquisizioni abbiamo dovuto gestire situazioni più complicate, con tanti sindacati e territori coinvolti».

La Fiom alla Ima è maggioritaria, come quasi ovunque nella zona, ma ciò non ha impedito di instaurare un rapporto costruttivo. «Gli integrativi li firmiamo senza scioperi», dice Vacchi, «e, nel rispetto dei ruoli, cerchiamo sempre di trovare l’accordo. E ha funzionato, anche se non sono mancate discussioni accese». Tra i jolly calati sul tavolo delle relazioni industriali spiccano la politica dei premi di continuità, l’attenzione al welfare, la sponsorizzazione di progetti di beneficenza attiva su proposta delle Rappresentanze sindacali unitarie (Rsu). Ferioli racconta che da anni i premi di risultato scattano precisi come orologi svizzeri («l’anno scorso un lavoratore del quinto livello ha intascato 1.800-2.000 euro lordi») e, soprattutto, che il boss ha voluto introdurre un benefit legato alla stabilità delle performance. «Così se per tutte le annate dell’integrativo, che possono essere 3 o 4, si raggiungono gli obiettivi, oltre al premio annuale ne arriva uno aggiuntivo».

Il turn-over è assai basso. Dei 2.400 addetti in Italia, oltre 1.400 lavorano in ditta da più di dieci anni. «È difficile andarsene, c’è un forte senso di appartenenza, e con la crescita e le acquisizioni c’è sempre un sacco da fare», spiega Dario Rea, che ha salito tutti i gradini della ricerca e continua a disegnare macchine. Ma se Vacchi va in Confindustria, che succede? «Siamo contenti e orgogliosi e un po’ preoccupati, perché dovremo essere ancora più efficienti», dicono all’unisono Ferioli, Marchesini e Rea, i tre manager della vecchia guardia. Accanto a loro, Werter Castelli, un montatore di blisteratrici in tutta rossa, fa il tifo anche lui. E pure lui, dice, è un tantino preoccupato.