La crisi finanziaria viene spiegata usando spesso termini complessi. Ecco un breve glossario per orientarsi tra le parole più importanti della congiuntura economica

QUANTITATIVE EASING
Nel marzo 2015 la Banca centrale europea ha iniziato una vasta manovra tesa a dare liquidità al sistema finanziario, al fine di stimolare la domanda sul mercato interno e scongiurare i rischi recessivi di una prolungata discesa dei prezzi (chiamata deflazione). L’operazione si ?è concretizzata in massicci acquisti di titoli di Stato e altri strumenti finanziari, operati in parte dalla Bce stessa ma in più larga misura dalle banche centrali di ogni singolo Paese dell’eurozona. Da principio ?gli acquisti erano pari a 60 miliardi di euro al mese, aumentati a 80 miliardi nel marzo 2016 e poi riportati ?al volume originario.

SPREAD
Viene chiamato così il differenziale di rendimento fra i titoli di Stato di due diversi Paesi; in generale, nell’area dell’euro, si guarda lo spread fra i propri titoli e quelli tedeschi, i più liquidi e meno rischiosi. Nei primi dieci anni di vita dell’euro, lo spread fra il Btp italiano e il corrispondente Bund tedesco era risibile, come dovrebbe essere in un’unica area valutaria. Con la crisi del debito pubblico scoppiata nel 2010, soprattutto quando Germania e Francia hanno chiarito di non essere disponibili a condividere ?i rischi dei fallimenti di altri Paesi dell’Eurozona, ?lo spread è diventato un’emergenza: avere tassi d’interesse più alti danneggia non solo le imprese ma anche gli Stati, che vedono aumentare il costo del debito pubblico. In Italia ha superato i 500 punti base tra la fine del governo Berlusconi e i primi mesi di quello Monti, poi è diminuito. A farlo scendere in maniera più decisa è stato il QE (in prossimità dell’avvio era a 90 punti base) ma poi, con il passare del tempo e con i ripetuti segnali dell’instabilità politica italiana, è tornato stabilmente sopra quota 200.

EUROBOND
Sono il sogno dei Paesi più fragili dell’Eurozona, l’incubo degli altri. Dovrebbero essere dei titoli di debito emessi da istituzioni comunitarie, con ?i vari Paesi congiuntamente responsabili del loro rimborso. Sono stati evocati a più riprese per finanziare dei progetti di rilevanza europea, che possano impegnare l’Unione nel suo insieme in investimenti che interessano tutti e che possano aumentare la competitività dell’intera area. Com’è comprensibile, i Paesi più “virtuosi” nei conti pubblici non vogliono però sentirne parlare, per non ritrovarsi costretti a finanziare le spese degli altri.

EUROPEAN SAFE BONDS
Sono gli strumenti descritti nell’articolo principale, che ?le istituzioni europee stanno studiando per affrontare ?il circolo vizioso tra debito pubblico e banche. ?Il problema è questo: dopo ?il 2010 il debito pubblico dei Paesi più fragili dell’Eurozona è andato via via nazionalizzandosi. Le banche italiane (e anche la Banca d’Italia), ad esempio, sono zeppe di Btp emessi dal Tesoro. Se lo Stato non riuscisse più a rimborsarli, dichiarando default, ?le banche rischierebbero ?a loro volta di fallire, con conseguenze disastrose. ?Il regolamento allo studio prevede due interventi: ?la creazione di apposite società veicolo (Spv) che acquisterebbero i titoli ?di Stato dei vari Paesi e si finanzierebbero vendendo ?dei nuovi titoli alle banche, garantiti da panieri composti dai titoli di Stato acquistati. ?I nuovi titoli (definiti in gergo tecnico “cartolarizzati”) rappresenterebbero l’intero paniere dei Paesi europei e sarebbero ripartiti per priorità di rimborso, senza un nesso fra la probabilità che quest’ultimo venga effettuato e il singolo Paese che dovesse fallire. Le banche sarebbero tenute a comprare solo i titoli cartolarizzati più sicuri, detti senior, risultando così immunizzate dai rischi ?di fallimento del loro ?Paese d’origine.

INFLAZIONE
È uno dei fattori chiave dell’architettura dell’euro. ?La Bce, infatti, per decidere ?le proprie misure di politica monetaria deve guardare un solo fattore: l’andamento dei prezzi al consumo, che deve cercare di mantenere a un livello di crescita vicino al 2 per cento annuo. Di più, vorrebbe dire che c’è ?il rischio di un surriscaldamento dell’inflazione, che può avere gravi conseguenze; di meno, che l’economia non è sufficientemente pimpante ?e che, di conseguenza, i prezzi languono. I tedeschi insistono sul fatto che la Bce deve limitarsi al suo compito statutario, mentre deve toccare ai singoli Stati trovare i giusti stimoli per favorire ?la crescita. All’interno dell’Unione europea, però, le condizioni economiche sono molto diverse da Paese a Paese. E la fuga di capitali che dopo il 2010 si è verificata verso la Germania ha avuto conseguenze rilevanti: i tassi d’interesse sono crollati, permettendo allo Stato e alle imprese di finanziarsi a costi bassissimi. Di più: se i tedeschi avessero avuto ancora il marco, questo si sarebbe rivalutato, facendo perdere competitività alle loro imprese e aumentando quella dei vicini. Con una politica monetaria accomodante come quella della Bce e i tassi d’interesse molto più vantaggiosi rispetto a quello dei Paesi vicini, il made in Germany ci ha invece guadagnato moltissimo, come mostra ?il surplus record della bilancia fra importazioni ?e esportazioni.

DEFAULT
Un governo dichiara fallimento quando non riesce più a sostenere le scadenze degli interessi e dei rimborsi dei titoli del debito pubblico. Può essere “soft” o “hard”. Nel primo caso, lo Stato avvia una negoziazione con i grandi creditori, sull’entità del mancato rimborso e sulle condizioni a cui restituire ?i debiti che rimarrebbero ?in vita. È la modalità seguita di recente dalla Grecia ?e dall’Italia in passato, nel 1906, nel 1926 e nel 1934, come ricordano Michele Fratianni, Antonio Rinaldi e Paolo Savona in “Le leve per avviare la ripresa” (il Mulino, 2013). Nelle situazioni più critiche, lo Stato dichiara fallimento unilateralmente, una situazione detta ?“hard default” vissuta dall’Argentina all’inizio degli anni Duemila.

CAC
Quando con la crisi del debito pubblico del 2010 è nato il Fondo Salvastati, poi diventato “European Stability Mechanism”, i Paesi europei si sono impegnati a applicare sui nuovi titoli di Stato con scadenza superiore a 12 mesi le cosiddette Clausole di azione collettiva (Cac). Prevedono che i termini e le condizioni dei titoli di Stato siano modificabili se lo Stato e una certa percentuale dei detentori trovano un accordo. Le percentuali a seconda dei casi variano dal 50 al 75 per cento. In teoria, dunque, una rinegoziazione “soft” del debito è possibile trovando un largo consenso fra i creditori: ovviamente, il consenso si può tentare solo in presenza di politiche molto chiare di rilancio dei meccanismi di crescita e di contenimento della spesa pubblica, altrimenti c’è il rischio che ?il debito torni rapidamente ?ai livelli pre-ristrutturazione. Secondo alcune stime, circa ?la metà dell’attuale debito pubblico sarebbe sottoposto a Clausole di azione collettiva.