Paura, chiusure e conti in rosso: così il virus mette in ginocchio migliaia di aziende
Gli ordini a zero. L'export bloccato. I lavoratori a casa. I trasporti in difficoltà. La manifattura italiana è alle corde a causa del contagio. E si mobilita per chiedere interventi urgenti al Governo
Le commesse che saltano, le forniture in ritardo. E poi progetti rinviati, preventivi sospesi. Le linee produttive che rischiano lo stop per mancanza di materia prima. E i dipendenti costretti a restare a casa in quarantena oppure in malattia. Mentre in decine di fabbriche si moltiplicano le proteste dei lavoratori che chiedono più tutele contro il contagio oppure la chiusura degli impianti. Nell’Italia assediata dal coronavirus, dopo il provvedimento del governo che mercoledì sera ha dato un nuovo giro di vite all'economia del Paese, migliaia di imprenditori vedono la notte solo un metro più in là, scaraventati nell’incubo peggiore che potessero immaginare: i clienti in fuga, il mercato che scompare, dissolto da un contagio che appare inarrestabile e, peggio ancora, imprevedibile nei suoi sviluppi futuri.
Adesso, per battere l’epidemia, l’industria nazionale potrebbe arrivare in moltissimi casi al sacrificio estremo: la serrata per cause di forza maggiore. Negli stabilimenti del gruppo Fca a Cassino, Melfi e Pomigliano, le linee di montaggio si sono già fermate per consentire interventi straordinari di sanificazione.
Nella provincia di Brescia, uno dei motori industriali d’Europa, grandi acciaierie come la Alfa Acciai hanno preferito chiudere i battenti per tutelare la salute dei propri dipendenti.
I sindacati però protestano. In molte aziende è praticamente impossibile rispettare le prescrizioni sanitarie sulla distanza minima di un metro tra le persone e la richiesta minima, in alternativa alla chiusura completa, è quella di ridurre gli orari di lavoro.
Anche il rifornimento di componenti e materie prime destinate alla produzione si fa sempre più difficile.
Il transito dal valico del Brennero è sottoposto a restrizioni sempre maggiori.
In aeroporti come quello bergamasco di Orio al Serio, scalo decisivo per rifornire le aziende del Nord, gli aerei cargo atterrano mezzi vuoti, con forti aumenti delle tariffe. L’orizzonte delle aziende al tempo dell’epidemia si è ristretto alle 24 ore successive. Nessuno osa più programmare alcunché. Per giorni, già dopo il primo decreto del governo che estendeva la zona rossa a buona parte del Nord produttivo, le imprese hanno dovuto far fronte all’assalto dei clienti di tutto il mondo pronti a cancellare gli ordini. «Abbiamo grossi problemi di approvvigionamento», spiega Giuseppe Pasini, presidente della Feralpi di Brescia, uno dei maggiori gruppi siderurgici europei.
Per adattarsi alla nuova situazione, molti imprenditori hanno già cambiato l’assetto produttivo.
Priorità al lavoro da casa, al cosiddetto smart working, ma le imprese metalmeccaniche e le acciaierie possono funzionare solo se gran parte dei dipendenti è fisicamente presente in fabbrica. «Abbiamo modificato l’intero modo di produrre, distanziato i dipendenti a due metri l’uno dall’altro, avviato un sistema a ciclo continuo in modo da ridurre il numero di persone presente contemporaneamente in azienda, dilazionandolo sui weekend», racconta Walter Fontana, titolare di un’azienda da 500 dipendenti nel lecchese che produce scocche per automobili. Non è solo questione di organizzazione. Per tutti, la priorità è accelerare la produzione, fare scorte nell’ipotesi che la situazione possa ancora peggiorare. Intanto, l’ombrello della spesa pubblica dovrà far fronte ai costi pesantissimi che il sistema industriale sarà chiamato pagare anche in termini di occupazione. Il governo è infatti pronto a stanziare fino a 25 miliardi per far fronte all’emergenza e buona parte di questa somma andrà a finanziare ammortizzatori sociali di vario tipo per i lavoratori lasciati a casa dalle aziende entrate in crisi per l’economia. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha annunciato una cassa integrazione speciale che «andrà a tutelare tutti i lavoratori indipendentemente dal settore a cui appartengono» e «un allargamento degli ammortizzatori sociali, con la possibilità di utilizzo del fondo di integrazione salariale per le imprese da 5 a 15 dipendenti».
Andrea Donegà, segretario dei metalmeccanici lombardi della Fim Cisl fa notare che in realtà già da qualche mese l’industria dava segni di forte rallentamento, con tutte le ricadute del caso sui lavoratori: «Il 2019 - spiega Donegà - si è chiuso con un aumento del 79 per cento nel ricorso agli ammortizzatori sociali, a cui hanno fatto ricorso 392 aziende per un totale di 17.288 dipendenti». Le statistiche dicono che l’anno appena concluso ha fatto segnare i dati più allarmanti dal 2016, anno in cui si registrò l’ultimo picco di crisi. Come dire che l’impatto del coronavirus si scarica su un organismo già fortemente indebolito. Se salta il Nord Italia, che per primo e più duramente è stato colpito dal virus, rischia di restare appiedato il Paese intero, dal momento che in Lombardia, Emilia Romagna e Veneto risiede oltre il 40 per cento del pil italiano.
Nella sola Lombardia risiede il 18,6 per cento del manifatturiero nazionale, il 21,4 per cento degli addetti totali e il 27,3 per cento dei 465,3 miliardi di euro di export nazionale. È troppo presto per dire quali e quanti saranno i danni all’economia reale generati dall’epidemia, ma di sicuro, spiega Giovanni Miragliotta, docente di Pianificazione avanzata della supply chain al Politecnico di Milano, cambierà il livello di interdipendenza all’interno del sistema industriale. «Le imprese hanno clienti e fornitori internazionali, senza tuttavia conoscere esattamente la filiera produttiva dei componenti, senza sapere cosa si compra, da chi, in quale Stato, senza avere consapevolezza del livello di interdipendenza e sostituibilità di un fornitore o di un cliente. Una volta uscite da un’emergenza che ha evidenziato la fragilità di questo modello globalizzato, le aziende cercheranno di mappare e certificare le catene di fornitura di cui fanno parte». Il coronavirus ha bloccato un sistema fondato su una rete di rapporti gestiti in tempo reale da un capo all’altro del mondo.
E adesso, come spiega il lombardo Fontana, «chi prima si riforniva solo da mercati lontani, Cina in primis, sta iniziando a ripensare il proprio modello di approvvigionamento di materie prime, sta cercando fornitori locali e smonta quel sistema di accordi ed esclusività delle forniture che si è sviluppato in questi anni». Un network tanto complesso da diventare ingovernabile se viene investito da una tempesta come quella scatenata da un contagio fin qui sconosciuto. «La rapidità con cui il blocco cinese si è fatto sentire sulle nostre aziende ha messo in luce una dipendenza eccessiva», argomenta Giuliano Secco, presidente della Confederazione Moda di Confartigianato Veneto. «In futuro - sostiene Secco - lo Stato dovrebbe incentivare le aziende che intendono accorciare le catene di produzione, avvicinandole, cercando fornitori italiani e favorendo il recupero della domanda interna». Già prima dell’epidemia, per altro, i mercati globalizzati stavano lentamente rimodellando sé stessi. Fabio Sdogati, professore di economia internazionale al Politecnico di Milano parla di decoupling, cioè uno sdoppiamento del sistema secondo due poli di attrazione. «Da una parte - spiega Sdogati - la Cina che con la Nuova Via della Seta puntava ad andarsi a prendere le merci direttamente sui mercati di produzione e a esportare le proprie nei Paesi clienti. E dall’altra avevamo l’America di Donald Trump, sempre più chiusa al mondo esterno con una politica commerciale aggressiva a suon di dazi». Il coronavirus ha momentaneamente interrotto questo processo di cambiamento, ma è difficile dire quale sarà l’assetto del mondo una volta terminata questa crisi. Intanto, nel breve termine, gli imprenditori sono costretti a giocare in difesa, a limitare, per quanto possibile gli effetti di quello che si ogni giorno di più si profila come un disastro senza precedenti, guerra a parte, per l’industria italiana. «Nella crisi del 2009 - racconta Massimo Carboniero, presidente di Ucimu, la Confindustria delle macchine utensili - dovevamo solo accettare di vivere in un mercato rallentato, a tratti impallato, ma libero. Oggi, invece, le imprese non possono frequentare il mercato, che si è completamente bloccato, specialmente in Italia». I ricavi crollano, le casse si svuotano e quindi, se la crisi non dovesse risolversi entro qualche settimana, le aziende saranno costrette a far fronte a un problema sempre più grave sul fronte finanziario, della liquidità. C’è il rischio concreto di un’ondata di fallimenti. Non è un caso, allora, che la manifattura italiana si sia già mossa compatta per chiedere la dilazione delle scadenze di pagamento. Gli imprenditori premono sul governo per ottenere, la sospensione delle bollette per le forniture dei servizi (gas, acqua ed energia elettrica), dei termini degli adempimenti societari e la proroga al 2021 delle misure previste dal codice della crisi di impresa. L’elenco delle richieste recapitate a Roma comprende anche forme di contributi per la ripresa delle attività, sia per le imprese direttamente danneggiate, sia a quelle che stanno subendo danni indiretti. Dal un osservatorio privilegiato come quello di Confartigianato Veneto, Secco racconta come già lunedì 24 febbraio migliaia di laboratori tessili abbiano dovuto far fronte al blocco delle commesse. Non è solo il tessile veneto in difficoltà, ma l’intero sistema moda, che conta 82mila imprese, mezzo milione di dipendenti e un fatturato di 78 milioni di euro, di cui 63 di export. «Stimiamo che l’impatto negativo del Covid 19 si farà sentire sulle nostre aziende per almeno sei mesi - sostiene Secco - ed è evidente che non abbiamo fiato per arrivare senza aiuti alla fine di questo periodo così lungo. Non possiamo sostenere da soli l’impatto di una crisi di queste dimensioni sui bilanci delle nostre aziende». Ma c’è anche chi, in questo momento, lancia un grido d’aiuto e chiede l’intervento di Bruxelles: «Non è un problema solo italiano, ma un problema dell’Europa», dice Marco Bonometti, presidente di Assolombarda, a capo della Omr, Officine Meccaniche Rezzatesi, con quasi 4mila dipendenti e sedi in tutto il mondo. Al momento però i vari membri della Ue si muovono in ordine sparso e Bruxelles sembra più che altro impegnata a lanciare moniti e inviti alla collaborazione, destinati a cadere nell’indifferenza di Paesi troppo concentrati sui guai di casa propria. Bonometti invoca «una cabina di regia a livello continentale». Il rischio, ammonisce l’imprenditore bresciano è che il coronavirus finisca per far saltare l’intero modello europeo». Il sistema però ha muscoli sufficienti per riprendersi in breve tempo. Questa è la convinzione di Miragliotta del Politecnico di Milano, che rassicura: «Shock dirompenti come quello che stiamo vivendo sono occasioni enormi per fare giganti passi avanti, ad esempio nel medicale e nel digitale, nella robotica e nell’automazione. Possiamo rimetterci in piedi». No panic, insomma. Che è anche il messaggio dell’imprenditrice Laura Rocchitelli, titolare del gruppo elettrotecnico Rold, con 230 dipendenti, alle multinazionali sue clienti: «Esportiamo l’85 per cento di quello che produciamo e lavoriamo per le più grandi industrie del bianco, da Whirlpool a Bosch, a cui forniamo componenti elettronici. Le commesse sono di medio e lungo periodo, dai 12 ai 18 mesi, quindi sarebbe impossibile bloccarle, anche se stanno saltando incontri e meeting per la programmazione dei progetti futuri. Certo, se le autorità dovessero decidere di sospendere tutte le attività produttive sarebbe un vero dramma, perché abbiamo firmato accordi che ci impongono di consegnare le merci entro i tempi stabiliti per non incappare in sanzioni salatissime. E subiremmo anche la perdita dei clienti». Eccolo qui, allora, l’incubo degli incubi per gli imprenditori: superare l’emergenza e ritrovarsi con il mercato azzerato. Le prossime settimane saranno decisive per capire se una volta uscito dalla terapia intensiva il nostro sistema economico sarà davvero riuscito a evitare il peggio