Taglio dei tassi d'interesse e più liquidità nel sistema. Questa la strategia per reagire alla sempre più probabile recessione. Ma molti esperti dubitano che questa sia la terapia giusta. E i banchieri non sanno cosa fare

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Vaccino cercasi contro la recessione. L’ultima volta, nel luglio del 2012, furono le parole di Mario Draghi a rassicurare i mercati fermando il contagio della sfiducia che incombeva sull’economia europea. Il famoso «whatever it takes», cioè faremo «qualunque cosa sia necessaria», pronunciato dall’allora presidente della Bce spianò la strada a una serie di interventi che evitarono il peggio. Adesso però non c’è nessun Draghi in vista. Di fronte a una minaccia del tutto nuova come il Coronavirus, dal Vecchio Continente fino a Washington e all’Estremo Oriente (Pechino e Tokio), banchieri e politici che manovrano i comandi della finanza faticano a individuare una strategia comune per ridare fiato alla crescita ed evitare che il mondo precipiti in una crisi forse peggiore di quella cominciata nel 2008, quando esplose la bolla della finanza drogata.

Gli analisti sono divisi. Tutti si aspettano nuovi tagli nel costo del denaro e altre misure per dare ossigeno al sistema. E la Fed statunitense si è già mossa martedì 3 marzo portando il tasso di riferimento da 1,75 a 1,25 per cento. La manovra, almeno nelle intenzioni, dovrebbe servire a rimettere in moto il sistema garantendo nuova liquidità alle aziende in difficoltà. Un intervento quanto mai necessario se, come appare possibile, gli effetti dell’epidemia globale si faranno sentire ancora per molti mesi.

C’è grande incertezza, però, sulla reale efficacia di questa strategia. Molti esperti si chiedono che tipo di emergenza saremo chiamati ad affrontare. Negli ultimi anni abbiamo conosciuto una crisi innescata dal calo della domanda, che vuol dire meno consumi privati e meno investimenti da parte delle aziende. Questa volta però sono sempre più numerosi gli economisti che ritengono possibile una riduzione dell’offerta.
In altre parole potrebbe succedere che diminuiscano le merci disponibili sui mercati. In parte questo sta già accadendo. Pensiamo per esempio alle aziende in difficoltà in Europa e negli Stati Uniti perché mancano componenti prodotti in Cina, dove a causa dell’epidemia molte fabbriche si sono fermate o lavorano a ritmo ridotto. Le forniture potrebbero diventare sempre più difficili anche per effetto delle crescenti difficoltà dei trasporti, ostacolati da blocchi e divieti imposti per arrestare la diffusione del virus. I consumatori, come pure le aziende, sarebbero costretti a spendere meno perché non trovano i prodotti che cercano. E allora servirà a poco aumentare la quantità di denaro in circolazione.

«Se la crisi è dal lato dell’offerta c’è poco che possiamo fare», ha tagliato corto nei giorni scorsi Jon Cunliffe, vice governatore della Banca d’Inghilterra. Va detto che al momento il Coronavirus ha avuto effetti depressivi soprattutto sulla domanda di servizi. Il turismo è alle corde perché milioni di persone rinunciano a viaggiare nel timore di essere contagiate o di finire in quarantena al loro ritorno. Le compagnie aeree sono in grande difficoltà a causa del crollo delle prenotazioni. «È la paura, e non la scarsità di prodotti, a far diminuire i consumi», afferma Gianluca Garbi, amministratore delegato di Banca Sistema, in passato alto dirigente del Tesoro e poi a capo dell’Mts, il mercato paneuropeo dei titoli di stato.

L’intervento delle banche centrali per aumentare la quantità di denaro in circolazione potrebbe quindi avere un effetto positivo se non altro sul piano psicologico. Se il costo dei prestiti diminuisce, imprese e cittadini avranno più stimoli a spendere e a investire, rilanciando la crescita.

Uno scenario rassicurante, se non fosse che già da anni la Bce e, più di recente, anche la Fed statunitense sono impegnate a pompare liquidità nel sistema. Nei Paesi dell’area dell’euro il tasso d’interesse fissato come riferimento dalla Banca centrale di Francoforte è stato azzerato nel marzo del 2016. E nei due anni precedenti ha viaggiato a quota 0,05 per cento. Inoltre, a partire dal 2015, l’istituto all’epoca guidato da Draghi ha varato un piano di acquisti di titoli di stato, il quantitative easing, che ha aumentato per centinaia di miliardi all’anno la circolazione di moneta in Europa. Interrotti a dicembre 2018, gli acquisti sono ripresi nel settembre dell’anno scorso come misura preventiva in vista di un possibile imminente rallentamento della crescita. Anche la Fed nel corso del 2019 ha più volte tagliato il costo del denaro, prima del nuovo intervento deciso sull’onda dell’emergenza Coronavirus.

Il mondo si trova quindi da tempo a galleggiare su un mare di liquidità. Una situazione senza precedenti, spiegano gli analisti. Facile intuire, allora, che i provvedimenti decisi delle autorità monetarie rischiano di avere effetti molto inferiori alle attese. Il malato, cioè l’economia, è già stato riempito di medicine in passato e adesso che la diagnosi si è fatta più preoccupante, la guarigione pare tutt’altro che garantita se si insiste con la stessa terapia. La politica e gli operatori finanziari si attendono che venga predisposta una qualche rete di salvataggio, ma i banchieri centrali si muovono su un sentiero molto stretto. A dire il vero, fino a poco tempo fa, nelle stanze dell’alta finanza era diffusa l’impressione che il Coronavirus avrebbe avuto un effetto tutto sommato contenuto e limitato nel tempo sull’economia mondiale. Qualcosa di simile a un’influenza passeggera, insomma. Non per niente, mentre i contagi aumentavano in modo esponenziale fuori dalla Cina, il capo economista della Bce, Philip Lane, in un’intervista televisiva si era detto convinto che dopo qualche settimana di difficoltà, la ripresa sarebbe stata velocissima.

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La platea degli ottimisti a oltranza va peraltro riducendosi di giorno in giorno, come dimostrano anche i ripetuti ribassi di Borsa, seguiti da brevi fiammate al rialzo per ora insufficienti a recuperare il terreno perduto. Neppure il taglio di mezzo punto del tasso d’interesse annunciato dalla Fed, è riuscito a rilanciare le quotazioni. Ed è tutto da dimostrare anche che la manovra monetaria sia destinata a produrre effetti concreti per l’economia reale.
Va ricordato che alla fine del 2019, ben prima che il Coronavirus diventasse una minaccia concreta, tutte le principali istituzioni finanziarie, dal Fondo monetario internazionale alla Bce presieduta da Christine Lagarde, prevedevano un rallentamento del ciclo. La frenata veniva considerata come molto probabile nel corso del 2020 nonostante i tassi, quantomeno in Europa, viaggiassero da tempo al minimo. Come dire che la liquidità supplementare non era stata in grado di sostenere una crescita duratura. Al contrario, la politica del denaro facile aveva gonfiato una gigantesca bolla speculativa sui mercati azionari e obbligazionari. Si spiega così la corsa a perdifiato di Wall Street, che prima della recente brusca frenata, era reduce da 11 anni consecutivi di crescita, il ciclo rialzista più lungo della storia.

Già nel novembre scorso il Rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato dalla Bce aveva ammonito che i listini, a lungo sorretti dai bassi tassi d’interessi, erano sempre più esposti a una correzione al ribasso. Il documento della Banca centrale europea segnalava anche altri gravi rischi per il sistema. «La politica di bassi d’interesse - si legge nel rapporto - ha fin qui consentito di accedere a finanziamenti a buon mercato anche a Paesi con una finanza pubblica più fragile». Se però il ciclo economico dovesse peggiorare, la vulnerabilità di questi debitori tornerebbe a essere un problema. Questa la conclusione degli analisti di Francoforte, con parole che si adattano alla perfezione al caso dell’Italia.

Gli investitori hanno ben chiara la situazione e infatti, non appena il Coronavirus ha contagiato i mercati, anche i titoli di stato nostrani sono stati bersagliati dalle vendite. Il rendimento dei Btp, reduci da un periodo di relativa calma seguito all’insediamento del nuovo governo a Roma, è quindi tornato a crescere fino a superare quota uno per cento, anche per la preoccupazione sulla tenuta dei conti pubblici dopo l’annuncio dei un piano di spese straordinarie annunciato dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri. Spese peraltro destinate a crescere.

Al momento la situazione non è preoccupante ma potrebbe diventarlo se l’emergenza dovesse proseguire per mesi. Lo stesso discorso vale per molte grandi aziende che nel recente passato sono riuscite a finanziarsi a tassi particolarmente bassi sul mercato obbligazionario e adesso temono di veder aumentare il costo dei prestiti. Le prospettive sono incerte anche per le banche, nessuna esclusa. Gli istituti di credito hanno investito una parte rilevante delle loro attività in titoli di stato che ora rischiano di svalutarsi velocemente. Adesso tutti sperano che una raffica di tagli nei tassi d’interesse sia la medicina giusta per arrestare il contagio finanziario. Il timore, però, è che la liquidità supplementare finisca per aumentare i rischi senza curare la malattia.